Costi orari e giornalieri degli investigatori privati? A livello di tariffe , per un servizio efficiente, efficace e concreto la tariffe orarie di circa 50 € all'ora per agente operativo, mente la tarifa giornaliera le agenzia investigative generalmente richiedono tariffe giornaliere tra 600 e 1.200 per ogni investigatore privato impiegato.
Quanto costa un investigatore privato , specializzato, per pedinare?
Dipende da tantissimi fattori quali: le ore di servizio, i km, il tipo di pedinamento, tipo auto, moto, a piedi, in aero con il drone, con il gps. ecc, e via via dicendo; ma di norma un professionista investigatore con l’ausilio della tecnologia costa molto di piu della tariffa oraria base.
Le tariffe orarie variano da investigatore a investigatore: in media, il costo è di circa 50 euro all'ora. Oltre alla durata dell'investigazione ed il tipo di investigazione.
Cosa non può fare l'investigatore privato?
Quanto costa investigazione Infedeltà?
Quanto prende investigatore privato?
Quanto costano le indagini difensive?
Autorizzati dalla prefettura di Milano - Rilascio di Report valido per uso legale.Investigazioni Aziendali, Private, penali e difensive. Operiamo nel settore investigativo e della sicurezza dal 1991 . Siamo specializzati a svolgere indagini in ambito privato, aziendale e penale. Sia in Italia o all’estero con oltre 400 corrispondenti on line nel mono in circa 170 paesi,
Opera nel settore investigativo dal 1991, ed opera in tutto il territorio italiano ed internazionalmente, avvalendosi di corrispondenti sparsi in tutto il mondo.
Le indagini svolte dall’agenzia comprendono vari servizi, tra cui investigazioni aziendali, sulla concorrenza sleale, assenteismo sul luogo di lavoro, violazione di marchi e brevetti, violazione della legge 104, indagini private per infedeltà coniugale, indagini ad uso legale su separazioni e casi di affidamento. Le nostre indagini possono anche essere svolte per accertare situazioni economico-patrimoniali e commerciali, così come nei casi di antifrode e di indagini informatiche.
Siamo, inoltre, accreditarti presso l'ordine degli avvocati di Milano ed autorizzati dalla Prefettura di Milano.
Garantiamo massima riservatezza e professionalità.
Il fondatore dell’agenzia, Max Maiellaro, vanta un’esperienza trentennale nell’ambito; si occupa principalmente e personalmente delle indagini, coordinando il team di esperti con cui collabora.
Agenzia Investigativa IDFOX, esperienza internazionale ultra trentennale collegata con 170 paesi al mondo con oltre 400 corrispondenti online.
Adottando inoltre le migliori apparecchiature investigative e mantenendo alti standard qualitativi, con IDFOX riuscirai ad ottenere tutti i risultati prefissati in un arco temporale non troppo lungo.
Le investigazioni private svolte da IDFOX hanno validità in sede di giudizio e sono corredate di prove cinefotografiche e un dettagliato rapporto tecnico.
Siamo attivi 24 ore su 24. Contattateci per un preventivo gratuito.
Non avrai mai spiacevoli sorprese poiché il costo dell’operazione viene concordato insieme al cliente, mantenendo la massima trasparenza.
La nostra Agenzia Investigativa IDFOX ha risolto con successo numerosi casi di investigazione per privati e importanti aziende, in svariati settori.
Avvalendoci di esperti di provata affidabilità e concreta maturata esperienza professionale, con studi strategici finalizzati al raggiungimento dell’obiettivo, garantiamo risultati concreti.
L’agenzia IDFOX utilizza tutte le opportune tecniche innovative e di ultima generazione nell’attività di intelligence, ricercando mezzi e sistemi sempre all’avanguardia.
Il continuo aggiornamento professionale, associato alle tecniche d’indagine applicate, tenuto conto del radicale mutamento dei tecnicismi investigativi, fanno dell’agenzia International Detectives IDFOX una società leader nel settore delle investigazioni private.
L’attività di investigazione privata a Milano svolta dalla nostra agenzia IDFOX s.r.l. colloca il nostro CLIENTE in una posizione privilegiata. La nostra agenzia investigativa, leader nella tecnologia più avanzata con oltre trent'anni di esperienza, è un'organizzazione con a capo un management d'eccellenza che ha maturato una profonda esperienza nell’investigazione privata in Italia e all'estero.
La nostra agenzia IDFOX s.r.l. è un'organizzazione investigativa e di security strutturata a livello nazionale ed internazionale ed ha come scopo la tutela ed il perseguimento dei diritti ed interessi dei propri assistiti privati o aziende.
Attraverso la ricerca approfondita di fonti di prova e/o elementi di verità l’Investigatore Privato rappresenta strumento essenziale e strategico per la tutela della libertà del cittadino e per la raccolta di materiale giuridicamente valido da rappresentare in sede di giudizio; prerogativa che hanno soltanto tutte le agenzie investigazioni in possesso di licenza Prefettizia, come la nostra, autorizzata dalla Prefettura di Milano.
Chiamaci per richiedere una consulenza gratuita oppure un preventivo:
Telef.02-344223 (r.a.)
www.idfox.it - mail: max@idfox.it
con oltre 30 anni di esperienze investigative maturate nella Polizia di Stato, era già diretto collaboratore del Conte Corrado AGUSTA, ex Presidente dell’omonimo Gruppo AGUSTA S.p.a..
Inoltre è stato responsabile dei servizi di sicurezza di multinazionali operanti in svariati settori quali: chimica, oreficeria, tessile, alta moda, elettronica e grande distribuzione;
ha sempre risolto brillantemente ogni problematica investigativa connessa a: infedeltà aziendale, ai beni, dai marchi e brevetti dalla concorrenza sleale e alla difesa intellettuale dei progetti, violazione del patto di non concorrenza, protezione know-how ed alla tutela delle persone e della famiglia, classificandosi come referente abituale di imprenditori, manager, multinazionali e studi Legali su tutto il territorio Italiano ed Estero.
La responsabile dei servizi dell’Agenzia IDFOX S.r.l. è la Dott.ssa Margherita Maiellaro, in collaborazione con il direttore dell’agenzia, Max Maiellaro.
La responsabile ha un’esperienza pluriennale nel campo ed ha conseguito una laurea in Giurisprudenza presso l’Università Luigi Bocconi.
Da anni si occupa dei rapporti con clienti internazionali ed istituzionali, operanti in svariati settori, quali: informatica; assicurazioni; istituti finanziari; alta moda; infedeltà aziendale; marchi e brevetti; concorrenza sleale; violazione del patto di non concorrenza; tutela delle persone e della famiglia.
Abbiamo maturato un’esperienza trentennale nel campo delle investigazioni private e, per questa ragione, siamo in grado di tutelare la vostra azienda, il vostro business e la vostra vita privata.
Le investigazioni aziendali consistono in quei servizi atti ad aiutare l’azienda nel momento in cui delle determinate informazioni segrete, protette dalla legge ed in possesso di un’impresa, sono portate a conoscenza di terzi, generalmente aventi attività economica concorrenziale.
Il datore di lavoro che ha dei sospetti sui collaboratori, soci ecc., può rivolgersi ad un investigatore privato autorizzato richiedendo legittimi controlli, nel pieno rispetto della legge.
Siamo specializzati anche nel sabotaggio di attacchi informatici e cybercrimini, due problemi di cui si sente parlare sempre più spesso. Alcune aziende hanno saputo mettersi al riparo in tempo, ma i tentativi di intromissioni illegali sono sempre presenti e possono esporre a notevoli rischi. Grazie all'impiego di attrezzature e sistemi informatici all'avanguardia, effettuiamo controlli meticolosi, indaghiamo su comportamenti di infedeltà aziendale che possono risultare lesivi per l'azienda.
IDFOX offre un’ampia varietà di servizi che vanno dai più semplici a quelli estremamente più complessi e il prezzo di conseguenza tende a mutare. Ad esempio, il costo di un servizio di pedinamento di un coniuge che viene sospettato di tradimento, non sarà lo stesso di un’ ispezione dettagliata in ambito aziendale volta alla ricerca di frodi.
Possiamo dunque considerare ogni investigazione come una sorta di abito cucito su misura, per cui non esiste un costo standard in quanto le variabili di ogni servizio sono innumerevoli. Altro dato che incide sul costo è l’orario in cui il servizio verrà svolto, ad esempio, se per l’intera giornata o diversi giorni, se in orari serali, notturni o di giorno.
Indagini private per infedeltà coniugale, separazioni, affido, stalking, monitoraggio giovani, indagini difensive; indagini commerciali ed economiche bancarie, antifrode sinistri ed indagini informatiche.
Quindi, il primo passo per assumere un investigatore privato è aver chiaro il motivo per cui la si sta contattando.
I reati contro le compagnie assicurative sono una piaga sociale: l’inscenare dei finti furti/sinistri e delle truffe, per intascare facili risarcimenti è in perenne aumento.
Con le nostre indagini antitruffe assicurative (art. 642 c.p.) smascheriamo chi, con frodi o raggiri, consegue ingiusti profitti a danno delle compagnie assicurative e degli istituti finanziari.
Grazie alla nostra esperienza investigativa ultra trentennale, siamo in grado di fornire un valido supporto alle Compagnie Assicurative attraverso indagini ad hoc per accertare l’esatta dinamica dei sinistri avvenuti, svolta attraverso l’acquisizione degli atti presso le autorità eventualmente intervenute, la ricerca dei testimoni e verifica delle dichiarazioni rese dalle parti interessate, ricostruzione cinematica presso il luogo del sinistro corredato di rilievi fotografici, nonchè accertamenti su mezzi e/o soggetti, attivando anche osservazioni statico-dinamiche su eventuali lesionati, oppure scovare presunti soggetti deceduti per incassare polizze milionarie.
Siamo sempre a Vostra disposizione in qualsiasi parte del Mondo, collegati online,con oltre 400 agenzie in vari paesi del mondo.
The goal at IDFOX Investigation is to meet your needs providing you with, "your key to the truth" at the same time ensuring that the evidence developed will be credible within the strict rules governing evidence and privacy laws.
IDFOX Investigation provides investigation services in general investigations, civil litigation, defence criminal, investigations for fraud/theft/background and locate investigations, family law and estate, inheritance matters, genealogical research, court record searches, real estate/property investigations etc.
We are located in Milan – Italy. Some of our services are entirely uniques to our agency such as: genealogical.
Call us for a consultation and this will allow us to examine and provide advice on the best course of action for a successful investigation. If we continue with the assignment we will provide you with the security of knowing that your identity and the investigation will be kept strictly confidential.
Agency IDFOX International has offices all over the world in order to serve our clients. We specialize in the implementation of complex international investigations in a wide variety of areas. We offer background investigations at several levels, depending on the risk or need.
Siamo specializzati in investigazioni legate a frodi, truffatori, promotori, agenti e vari soggetti che con raggiri pongono in essere condotte riconducibili a: irregolarità contabili, corruzione, concussione, appropriazione indebita, sottrazione di beni aziendali.
Individuare l’esistenza di un rapporto bancario fornisce al creditore un’informazione rilevante per poter così eventualmente procedere alle azioni finalizzate al pignoramento, capitalizzando l’azione di recupero crediti. I dati forniti vengono reperiti consultando fonti e/o banche dati pubbliche ed attraverso attività investigativa sul territorio, e vengono trattati nel pieno rispetto del D.L.vo 30 Giugno 2003, n. 196.
Le investigazioni commerciali, patrimoniali, finanziarie, economiche e bancarie, sono utili per il recupero dei crediti, solvibilità, eredità contese, rintraccio di eredi fino al sesto grado e rintraccio di patrimoni occultati; svolgiamo inoltre indagini per rintraccio dei truffatori finanziari di BITCOIN.
Recentemente sono state sempre più le società di recente costituzione che propongono offerte vantaggiose per l’acquisto di Bitcoin. Correntemente, infatti, avvengono molte truffe ai danni di coloro che acquistano Bitcoin o che investono in cryptovalute. Le truffe avvengono tramite siti fantasma e sono messe in atto da soggetti che agiscono in incognito, inviando documenti e certificazioni false, puntando sulla non rintracciabilità delle monete virtuali.
Indagini Informatiche forensi; L’avanzamento sempre più rapido della tecnologia e di Internet ha stravolto la nostra vita; assieme alla profonda digitalizzazione dei sistemi di gestione ha portato, purtroppo, anche alla diffusione dei cosiddetti “crimini informatici”.
Per combattere questi crimini si sono sviluppate, in parallelo, svariate forme di prevenzione e di tutela, tra le quali emerge la figura del detective privato informatico.
L’agenzia IDFOX Srl è specializzata nelle indagini informatiche di carattere forense, ovvero finalizzate all’individuazione del crimine in questione, e rilascio di un report dettagliato dal valore probatorio.
A cosa servano le investigazioni informatiche forensi?
Le necessità sono molteplici:
-Investigazione mirata ad individuare tracce di un possibile crimine;
-Indagini per identificazione degli autori;
-Analisi forensi;
-Recupero dati cancellati (da WhatsApp, Facebook e altre chat) e password;
-Recupero dati da dispositivi fissi o mobili, analisi del traffico di una particolare intrusione;
-Bonifica dispositivi fissi o mobili intercettati, telefoni e computer.
-appropriazione fraudolenta o alterazione di dati e informazioni riservati ed altri possibili crimini informatici, molto spesso correlati a tentativi di spionaggio industriale.
-Su richiesta fornitura ed installazione software a tutela della privacy.
Se una persona fa una donazione di una casa, quando lui dovesse morire, il donatario erediterà anche i debiti?
La questione merita una più attenta riflessione perché sono stati confusi concetti tra loro differenti: quello della donazione e quello del legato. Facciamo un po’ di chiarezza sul punto.
Quando bisogna restituire le donazioni in vita?
Le donazioni fatte da una persona quando era ancora in vita possono essere contestate dagli eredi, dopo la sua morte e non oltre 10 anni da essa, solo se questi ha lasciato ai familiari più stretti una quota inferiore di quella loro riservata dalla legge (la cosiddetta «quota di legittima»).
Gli eredi che possono contestare la donazione sono chiamati «eredi legittimari» e sono unicamente il coniuge e i figli (o, in assenza dei figli, i genitori).
Se, dunque, uno degli eredi legittimari dovesse accorgersi che, alla divisione del patrimonio ereditario, la sua quota di legittima è stata lesa potrebbe mettere in discussione il testamento e le donazioni fatte dal defunto quando ancora era in vita. Sicché, il beneficiario della donazione dovrà restituire il bene che aveva ricevuto a suo tempo dal defunto.
Tale azione può, come detto, essere esercitata non già quando il donante è ancora in vita ma solo dopo la sua morte ed entro massimo 10 anni dall’apertura della successione. L’erede legittimario che assuma di essere stato leso dovrà però considerare le eventuali donazioni che anch’egli abbia ricevuto dal defunto prima che questi morisse, perché anche queste concorrono al calcolo della quota di legittima spettategli.
Chi risponde dei debiti del defunto?
A rispondere dei debiti del defunto sono solo i suoi eredi, ossia coloro che, chiamati alla successione, fanno la cosiddetta «accettazione dell’eredità». Prima dell’accettazione dell’eredità nessun familiare può essere oggetto delle pretese dei creditori del defunto.
Dall’erede bisogna distinguere la figura del legatario: colui cioè che non subentra in una quota dell’intero patrimonio del defunto ma che, col testamento, riceve solo uno specifico bene da questi. I legatari non rispondono dei debiti del defunto, benché abbiano comunque preso parte, in qualche modo, alla spartizione del relativo patrimonio. Ne rispondono solo se i creditori non siano riusciti a far valere le proprie pretese nei confronti degli eredi e pur sempre nei limiti del valore del bene ricevuto in legato.
Chi riceve una donazione risponde dei debiti del defunto?
Chi riceve una donazione non può mai rispondere dei debiti del defunto, in alcun caso. In questo è possibile ravvisare la profonda differenza tra l’istituzione di un erede o di un legatario da un lato e il beneficiario della donazione dall’altro.
Vero però è che se il donante ha eseguito la donazione in vita per sfuggire ai creditori ed evitare che questi potessero pignorare il bene in questione, tale trasferimento può essere revocato dai creditori stessi entro 5 cinque anni dalla trascrizione del rogito nei pubblici registri immobiliari. È la cosiddetta azione revocatoria. Ma una volta decorsi i cinque anni, la donazione si “solidifica”: diventa cioè definitiva e non comporta alcun rischio per il donatario.
Cosa rischia il donatario alla morte del donante?
Il donatario, alla morte del donante, rischia solo di subire l’azione di riduzione (o «lesione della legittima») intrapresa dagli eredi legittimari del defunto (coniuge, figli o genitori) nel caso in cui questi non abbia rispettato le relative quote di legittima. Ma non può mai subire un’azione di rivalsa da parte dei creditori o degli stessi eredi che, proprio in virtù di tale veste, si siano trovati a dover far fronte alle pretese dei creditori del defunto.
Liceità dell'utilizzo del sistema GPS nel corso delle investigazioni private: irrilevanza penale e accortezze ai fini della privacy
L'investigatore privato e il GPS
La possibilità per un investigatore privato di indagare su una persona tramite un sistema di rilevamento GPS, al fine di "seguirla" e di ricostruirne gli spostamenti, ha avuto nel tempo notevoli mutamenti ed ancora oggi, purtroppo, è motivo di discussione.
L'utilizzo di questo sistema è strettamente connesso al tema della sorveglianza elettronica e, conseguentemente, ci costringe a diversi interrogativi.
Non vi è una specifica norma sul punto - ad eccezione di quanto previsto nel D.M. 269/10, con tutti i limiti esistenti in capo a un decreto ministeriale - e la giurisprudenza esistente si riferisce quasi esclusivamente all'utilizzo del GPS da parte della polizia giudiziaria.
Secondo i giudici della Suprema Corte, "seguire" una persona tramite un rilevatore GPS rientra tra le attività di investigazione atipiche assimilabili al pedinamento ed è perfettamente eseguibile (cfr. Cass. n. 9416/2010; Cass. n. 9667/2009; Cass. n. 15396/2008; Cass. n. 3017/2008). Vi è pertanto un orientamento giurisprudenziale consolidato favorevole, sebbene, questo venga applicato esclusivamente al settore dell'investigazione pubblica.
Irrilevanza penale
In tema di investigazione privata, il D.M. n. 269/2010 definisce l'attività di indagine in ambito privato come quella attività volta alla ricerca e alla individuazione di informazioni richieste dal privato cittadino, anche per la tutela di un diritto in sede giudiziaria, e che possono riguardare, tra l'altro, gli ambiti familiari, matrimoniali, patrimoniali e la ricerca di persone scomparse.
Tale DM, all'art. 5 comma 2, prevede espressamente che: "i soggetti autorizzati possono svolgere …. (omissis) …. attività di osservazione statica e dinamica (c.d. pedinamento) anche a mezzo di strumenti elettronici".
Ogni qualvolta, quindi, si colgano informazioni relative alla posizione di un veicolo posto sulla pubblica via, il pedinamento elettronico mediante l'utilizzo del GPS è pertanto perfettamente lecito. Ciò nonostante, potrebbe capitare di essere ugualmente denunciati per il reato di cui all'art. 615 bis c.p. (illecita interferenza nella vita privata).
Ma perché questo avviene? Molte volte per ignoranza normativa o talvolta per semplice dispetto da parte della persona che viene a conoscenza di essere stata oggetto di controllo e pedinamento.
L'articolo di legge 615 bis c.p. punisce chiunque si procuri notizie o immagini attinenti la vita privata di una persona mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora che si stiano svolgendo nei luoghi di privata dimora.
Il GPS non è uno strumento utile alla captazione visiva o sonora, e l'autovettura (anche se esistono sentenze contraddittorie) non è un luogo di privata dimora, ed è quindi abbastanza semplice convenire come qualsiasi denuncia sull'utilizzo del GPS da parte dell'investigatore privato sia solo un pretesto per arrecare fastidi, un'inutile perdita di tempo ed ovviamente di denaro.
Accortezze ai fini privacy
Quanto precede risponde, però, solo alla frequente domanda se l'utilizzo del GPS sia lecito o meno da un punto di vista penale.
Vi è però un altro aspetto da tenere in considerazione, certamente non meno importante, ed è relativo al diritto alla riservatezza della persona oggetto di indagine.
I dati relativi alla localizzazione del veicolo e al tragitto dello stesso riguardano, infatti, una persona fisica identificata o identificabile, e la legittimità del trattamento di questi dati deve superare il vaglio di un bilanciamento tra il diritto di difesa e le altre fondamentali libertà individuali (quale ad esempio il diritto alla riservatezza).
Il trattamento dei dati raccolti deve pertanto essere conforme al GDPR 679/2016, con particolare riferimento alla finalità, ai tempi di conservazione e alle modalità di diffusione delle informazioni raccolte.
Questo aspetto - che nulla ha a che vedere con la irrilevanza penale dell'utilizzo del GPS - è spesso tralasciato. La conseguenza è che la denuncia penale viene inizialmente archiviata, ma non è inusuale che successivamente una nuova denuncia venga riproposta con successo relativamente alla violazione della tutela dei dati personali, proprio perché non sono stati presi i dovuti accorgimenti e rispettati gli adempimenti previsti dalla nuova normativa sulla privacy.
L'esito finale sarà l'archiviazione della denuncia per illecita interferenza nella vita privata, cui seguirà però, una pesantissima multa per violazione del GDPR, fatta salva la possibilità che questa violazione non comporti essa stessa una responsabilità penale per inesistenza del bilanciamento dei diritti di cui sopra.
Si ricorda, inoltre, che per utilizzare il GPS resta indispensabile provvedere alla compilazione del registro degli affari, acquisire un incarico scritto in cui viene appunto evidenziato il rapporto tra committente e persona oggetto di indagine, nonché la specifica del diritto da tutelare in sede giudiziaria.
GPS sì ma nel rispetto della privacy
In conclusione, sia da un punto di vista penale sia di privacy è assolutamente legittimo l'uso di un sistema GPS da parte di un investigatore privato per seguire gli spostamenti di una persona.
È però necessario che i dati siano raccolti e trattati per il tempo strettamente necessario allo svolgimento dell'indagine, e con il solo fine di tutelare o difendere un diritto in sede giudiziaria.
L'art 169 del Regolemento del Codice della Strada vieta di tenere accesi i semafori dalle 23.00 alle 7.00 fatte salve particolari condizioni di circolazione, spetta quindi alla PA provare le ragioni per cui i semafori erano accesi
La PA deve provare le ragioni per l'accensione notturna dei semafori
L'art. 169 del Regolamento del Codice della Strada dispone: "1. Il funzionamento degli impianti semaforici a tempi fissi è vietato dalle ore 23.00 alle ore 7.00; è consentito per quelli comandati automaticamente dai veicoli, per quelli "a richiesta" azionati dai pedoni e per quelli coordinati o a più programmi, in cui sia previsto uno specifico programma notturno con durata ridotta del ciclo semaforico. 2. Allorché si verificano particolari condizioni di circolazione, con flussi di traffico elevati, o presenza di sensi unici alternati, o lavori in corso e simili, è consentito il funzionamento degli impianti semaforici anche tra le ore 23.00 e le ore 7.00."
Alla luce di detta norma, se al conducente viene contestato il passaggio con il semaforo rosso proprio nelle ore notturne, poiché il funzionamento del semaforo è precluso, spetta al PA dimostrare la sussistenza di un programma apposito di accensione e le condizioni che lo giustificano.
Queste le precisazioni che hanno condotto il GdP di Pinerolo ad accogliere il ricorso di un automobilista (rappresentato dalla Globoconsumatori) e all'annullamento dei verbali notificati con la sentenza del 2 maggio 2022.
Multe per passaggio con semaforo rosso
Un automobilista ricorre al Giudice di Pace di Pinerolo per contestare diversi verbali con i quali la PA competente gli contesta la violazione dell'art. 146 del Codice della Strada, che punisce il passaggio in presenza della luce semaforica rossa.
Nel ricorso il ricorrente fa presente che i rilevamenti sono stati effettuati nelle ore notturne, per cui il Comune era tenuto a dimostrare le ragioni per le quali i semafori fossero attivi anche in quelle ore, visto che l'art. 169 del Regolamento del Codice della Strada preclude l'accensione notturna dei semafori.
Semafori spenti di notte: alla PA provare se e perché erano accesi
Il Giudice di Pace accoglie il ricorso e annulla i verbali impugnati. La PA infatti non è riuscita a dimostrare gli elementi costitutivi della propria pretesa creditoria relativa alla sanzione irrogata, ossia l'infrazione e la regolarità del procedimento di irrogazione della sanzione.
Il ricorrente ha infatti eccepito che i rilevamenti sono stati effettuati durante le ore notturne e precisamente tra le ore 23.00 e le ore 7.00 , orario durante i quali il funzionamento del semaforo è vietata dall'art. 169 del Regolamento al Codice della Strada, a meno che non sussistano le condizioni particolari, indicate dalla norma.
Ha ragione il ricorrente quando afferma che la PA doveva dimostrar la presenza delle condizioni che la legittimavano a tenere accesi i semafori. La giurisprudenza infatti "è concorde nell'affermare che affinché l'accertamento possa considerarsi legittimo spetta alla PA l'onere di provare la ricorrenza delle condizioni indicate dai commi 1 e 2 dell'art. 169 Regolamento CDS, prova in difetto della quale la contestazione è illegittima ed il verbale non può che essere annullato"
Nel caso di specie non solo la PA non ha assolto al proprio onere probatorio, ma la stessa non ha neppure preso posizione sull'eccezione sollevata dal ricorrente, per cui il ricorso non può che essere accolto.
Obblighi, facoltà, limiti e orientamento giurisprudenziale della Cassazione sul segreto professionale dell'investigatore privato
Segreto professionale: definizione
L'argomento del segreto professionale è da sempre controverso, dibattuto e spesso sottovalutato, nonostante sia un diritto/dovere ben delineato. È necessario, innanzitutto, definire il segreto professionale. Questo è un obbligo normativo a carico di alcune figure professionali alle quali è fatto divieto di rivelare o comunicare informazioni di cui siano a conoscenza per motivi di lavoro, e per le quali è imposto uno specifico obbligo di segretezza.
Cos'è la segretezza?
È qualcosa di precluso alla conoscenza altrui dove, l'oggetto del segreto che non si intende riferire, accomunabile all'istituto del segreto professionale, può riguardare un fatto appreso o l'identità di un persona informata sui fatti.
Il segreto professionale è pertanto un ambito qualificante e riguardante solo alcuni soggetti, tra i quali gli investigatori privati autorizzati, che possono riservarsi la facoltà di non riferire a domande poste in sede processuale ed extra processuale che tendono a far rivelare circostanze e/o persone delle quali si è appresa notizia nell'esercizio della propria attività.
Segreto professionale: facoltà e limiti
Spetterà poi all'investigatore privato valutare se avvalersi o meno del segreto professionale, considerando che:
- il segreto professionale è un obbligo la cui violazione senza giusta causa è punita dall'art. 622 c.p.;
- l'investigatore privato autorizzato ha facoltà di non denunciare reati dei quali abbia avuto notizia nel corso delle propria attività (art. 334 bis c.p.p.);
- il Giudice ha comunque facoltà di procedere ad accertamenti qualora abbia motivo di dubitare della dichiarazione resa dall'investigatore privato (co. 2 art. 200 c.p.p.).
Con riferimento all'ultimo punto appena descritto è doveroso precisare che il segreto professionale non può essere utilizzato per nascondere la illecita modalità di acquisizione di un'informazione. Vale a dire che non è possibile celare nel segreto professionale la fonte che ha riferito una notizia confidenziale, se per acquisire quella determinata informazione è stato commesso un illecito.
Il comma 1, lettera b, dell'articolo 200 c.p.p. prevede che l'investigatore privato autorizzato non possa essere obbligato a deporre su quanto ha conosciuto per ragione della propria professione. Ma il problema si pone nel necessario bilanciamento tra il rispetto del segreto professionale, la tutela del diritto di difesa e il dovere civile di contribuire e collaborare all'amministrazione della giustizia nel far emergere la verità dei fatti.
Segreto professionale e divieto di testimoniare
Questo vuol dire che il riconoscimento del segreto professionale non determina il divieto di testimoniare, bensì ne stabilisce i limiti proprio nel bilanciamento degli interessi di tipo privatistico e pubblicistico di cui sopra, prevedendo una facoltà di astensione che non è generale ma trova la sua specifica nel singolo fatto e fonte.
In ambito civile è da considerarsi invece l'articolo 249 c.p.c. il quale afferma che "si applicano all'audizione dei testimoni le disposizioni degli articolo 200, 201, 202 codice di procedura penale relative alla facoltà di astensione dei testimoni".
La facoltà di astensione viene quindi attuata mediante una dichiarazione resa verbalmente in udienza quando il giudice ammonisce i testimoni ex art. 251 e, in ogni caso, non oltre l'inizio dell'esame testimoniale.
Il suggerimento potrebbe essere di anticipare questa fase e scrivere nella relazione investigativa, in premessa o nella descrizione dell'esito d'indagine, una dicitura specifica che richiami il segreto professionale.
La Cassazione sul segreto professionale dell'investigatore
In materia di segreto professionale riconosciuto all'investigatore privato in sede civile si è espressa anche la Corte di Cassazione occupandosi di un caso in cui un investigatore privato, rifiutatosi (in fase civile) di riferire il nominativo della propria fonte, si era ritrovato imputato in un processo penale per falsa testimonianza (ex art. 372 c.p.).
I Giudici della Suprema Corte hanno assolto l'investigatore ritenendo la scelta non punibile secondo l'art. 384 c.p., 2° comma, ai sensi del quale "la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione".
La Cassazione ha quindi stabilito che l'investigatore non è punibile, perché "non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere" (cfr. Cass. pen. sentenza n. 7387/2005).
Questa sentenza ha definitivamente sancito che gli investigatori privati possono esercitare il segreto professionale anche dinanzi al Giudice del Tribunale civile.
Dal 2005 ad oggi non è mai più stato messo in discussione, in sede civile o penale, il diritto/dovere dell'investigatore privato di avvalersi del segreto professionale.
Nelle cause risarcitorie derivante dalla responsabilità medica al paziente spetta dimostrare il nesso di causa tra la condotta del medico e il danno riportato, al medico invece di aver rispettato pienamente le leges artis o le best practices
La prova del nesso di causa è a carico del paziente
La donna che dopo un intervento di mastoplastica additiva, rileva la presenta di un inestetismo, consistente nella lieve asimmetria del seno, deve dimostrare, se vuole ottenere il risarcimento, il nesso di causa tra la condotta e il danno riportato. La stessa non può limitarsi a richiamare le conclusioni, tra l'altro non totalmente a suo favore, della ATP effettuata a distanza di quasi nove anni dall'intervento. Occorrono prove maggiori ai fini dell'accoglimento della domanda risarcitoria da responsabilità medica. Queste le conclusioni del Tribunale di Reggio Emilia nella decisione del 16 febbraio 2022 (sotto allegata).
Asimmetria mammaria dopo mastoplastica additiva
Una donna si sottopone a un intervento di chirurgia estetica al seno. A distanza di otto anni e mezzo promuove un accertamento tecnico preventivo art. 696 c.p.c nei confronti del medico che l'ha operata e del Centro medico presso cui l'intervento è stato eseguito, ritenendo la sussistenza della colpa medica e chiedendo la relativa quantificazione dei danni subiti.
In seguito la paziente promuove giudizio di merito sempre verso la struttura e il medico perché l'accertamento ha dimostrato la erronea esecuzione dell'intervento che ha prodotto inestetismi derivanti dalla diversa forma e dimensione delle due mammelle. Chiede quindi a titolo di risarcimento la somma di Euro 3.900,30.
Il Centro medico resiste in giudizio (contumace il medico) e contesta la domanda perché la leggera asimmetria mammaria è frutto di una complicanza che è stata ben descritta alla paziente, che quindi ne era a conoscenza.
Non spetta il risarcimento al paziente che non prova il nesso
Il Tribunale di Reggia Emilia chiamato a pronunciarsi precisa prima di tutto che: "spetta innanzitutto al paziente provare il nesso causale tra l'insorgere della patologia e la condotta del medico; solo in un secondo momento, laddove il paziente abbia dato prova di tale ciclo causale, il sanitario deve provare il pieno rispetto delle leges artis o comunque delle best practices, evidenziando la causa non imputabile che gli ha reso impossibile fornire la prestazione corrispondente ai canoni di professionalita? dovuti."
Ne consegue che se la causa del danno è incerta perché il paziente non prova il nesso tra condotta del medico e patologia, il giudice non può che rigettare la domanda.
Passando quindi all'esame del caso di specie, il Tribunale rileva che l'accertamento tecnico preventivo effettuato a distanza di quasi nove anni e in assenza di documentazione intermedia prodotta da parte attrice ha reso difficile l'espletamento della procedura peritale, la quale ha concluso per il danno si è verificato probabilmente per la "contrattura capsulare, evento prevedibile ma non prevenibile dai Sanitari, per cui non sarebbe rilevabile alcuna censura."
In sostanza dall'ATP è emerso che i modesti inestetismi quantificati nella percentuale dello 2,5% di danno biologico non sono sicuramente riconducibili alla colpa medica e che la lieve dismorfia è frutto di una contrattura capsulare, prevedibile ma non prevenibile.
La difesa di parte attrice tuttavia, nonostante tali incertezze, nulla ha osservato al riguardo, per cui la domanda deve essere rigettata, con conseguente condanna alle spese di lite in favore del Centro medico costituitosi.
E' perseguibile chi viola l'altrui sfera sessuale nel Metaverso? Il caso di Horizon Worlds in cui l'avatar di un'utente ha subito palpeggiamenti
Molestie sessuali online e loro punibilità
Nuove frontiere digitali, nuovi contesti in cui può esprimersi l'umana idiozia. Il caso di una donna vittima di molestie sessuali in un ambiente di realtà virtuale apre nuovi interrogativi nel mondo del diritto.
L'obiettivo è comprendere se comportamenti che sarebbero punibili nella realtà possano esserlo anche quando sono tenuti in contesti completamente digitali, virtuali, immateriali.
Il caso Horizon Worlds: utente "palpeggiata" nel Metaverso
Il caso incriminato si è verificato sulla piattaforma Horizon Worlds, afferente alla società Meta di Mark Zuckerberg (quello di Facebook, per intenderci).
Tale piattaforma ricrea un ambiente completamente virtuale, il cosiddetto Metaverso, in cui, grazie all'utilizzo di dispositivi di controllo dei movimenti e ad un visore, si guida il proprio avatar, cioè un personaggio che si muove all'interno di quell'ambiente virtuale, interagendo con gli altri personaggi, guidati da persone reali che fisicamente si trovano in altri luoghi distanti, anche dall'altra parte del mondo.
Ebbene, proprio questa interazione è sfociata in un episodio che, se fosse successo nel mondo reale, sarebbe qualificabile come palpeggiamento da parte di un avatar guidato da un uomo ai danni di un avatar guidato da una donna, con tanto di commenti sessisti da parte di altri utenti collegati.
La donna ha sporto denuncia, e al riguardo possono rilevarsi due conseguenze. Una di ordine giuridico: nel diritto statunitense, la fattispecie, benché avvenuta in ambiente virtuale, configura il reato di molestie sessuali e risulta, perciò, perseguibile.
L'altra di ordine più pratico: Meta, attraverso i suoi esponenti, si è scusata, ed ha prontamente introdotto una nuova funzione nel programma, chiamata Safe Zone, che impedisce, quando attivata, agli altri personaggi di avvicinarsi troppo al proprio avatar.
Il reato di molestie sessuali nel nostro ordinamento
Partiamo da quest'ultimo aspetto per evidenziare che la soluzione tecnica, per quanto apprezzabile, rischia di far ricadere sull'utente la responsabilità di non aver saputo evitare le eventuali molestie ricevute. Sarebbe, però, auspicabile che il programma impedisse in radice la possibilità che simili episodi possano verificarsi, senza richiedere alcuna attività da parte dell'utente.
Quanto al primo aspetto evidenziato, invece, che è quello che qui maggiormente interessa, va rilevato che il diritto italiano presenta delle particolarità che rendono un po' più complicata la questione relativa all'inquadramento giuridico di un fatto del genere.
La mancanza di un effettivo atto materiale - manca il contatto fisico vero e proprio - impedisce, infatti, di ricondurre la fattispecie nell'ambito della violenza sessuale disciplinata e punita dall'art. 609-bis c.p.
Il nostro ordinamento, inoltre, non prevede, a differenza di altri, un autonomo reato di molestie sessuali.
Metaverso: necessità di una disciplina per i reati sessuali online
Ciononostante, un importante appiglio giuridico lo offre l'art. 660 c.p. e la sua interpretazione fornita, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza.
Tale norma punisce il reato di molestie alla persona, intese come il comportamento con cui, in luogo aperto al pubblico, si arrechi ad altri molestia o disturbo per motivi meritevoli di rimprovero.
Ebbene, da questa generica definizione, relativa a comportamenti che possono anche non avere nulla a che fare con la sfera sessuale, la giurisprudenza ha provato ad elaborare la specifica figura delle molestie a sfondo sessuale, che, pur in mancanza dell'atto materiale del contatto fisico tipico della violenza sessuale, si sostanziano in espressioni volgari a sfondo sessuale o in atti di corteggiamento invasivo ed insistito (v. Cass. n. 2742/10).
Ebbene, una simile ricostruzione dovrebbe essere sufficiente a ricomprendere, o almeno a fornire l'aggancio per ricondurre nell'alveo delle molestie a sfondo sessuale - e quindi punire - anche quei comportamenti realizzati per mezzo di dispositivi elettronici nel contesto di ambienti virtuali.
Sul punto, però, sarebbe sicuramente opportuno - oltre che un auspicato progresso culturale da parte di tutti - un intervento del legislatore, anche comunitario, specificamente mirato a punire, senza possibilità di equivoci, simili comportamenti e a tutelare la dignità della persona e la sfera privata, massimamente quella sessuale, di ogni individuo, anche quando la stessa possa venire offesa o violata in ambienti completamente virtuali e digitali.
Perché immateriale non significa inesistente, e ciò che avviene online viene senza ombra di dubbio subito dall'individuo nella sua dimensione reale di persona fisica.
Il datore di lavoro può chiudere o bloccare l’accesso all’account di posta elettronica del lavoratore o del collaboratore esterno?
Potrebbe un datore di lavoro chiudere, sul più bello, l’accesso all’email aziendale di un lavoratore dipendente o di un collaboratore esterno, anche se questi non è stato sollevato dalle proprie mansioni e risulta ancora “in forze” presso l’azienda? Cosa succederebbe se, un bel giorno, il capo dovesse assegnare al lavoratore un diverso account di posta elettronica, chiudendo il precedente senza alcun preavviso e senza quindi dare al relativo interessato la possibilità di “backuppare” il contenuto? La questione è stata oggetto di un interessantissimo intervento da parte del Garante della Privacy destinato a fare scuola. E questo perché, per la prima volta, i principi in tema trattamento dei dati personali dei lavoratori dipendenti sono stati estesi anche ai collaboratori esterni. Cerchiamo di fare chiarezza sul punto. Scopriamo cioè se il datore di lavoro può bloccare la mail del dipendente o di un collaboratore.
L’email è coperta da privacy?
L’indirizzo email è considerato un dato personale, come tale protetto da privacy. L’obbligo di riservatezza coinvolge ancor di più il suo contenuto, tutelato anche dalla Costituzione che, come noto, garantisce la libertà e la segretezza della corrispondenza.
Tali principi valgono anche per le email aziendali, benché le stesse siano di titolarità dell’azienda. Il fatto che il datore di lavoro metta a disposizione del dipendente o del collaboratore esterno un account proprio non dà diritto al primo di ingerirsi nella sua gestione. Un po’ come dire che il padrone di casa che dà in affitto il proprio appartamento, pur rimanendone proprietario, non può entrarvi all’interno senza aver prima chiesto il consenso all’inquilino.
La riforma del lavoro introdotta con il Jobs Act ha stabilito il potere del datore di lavoro di controllare le email dei dipendenti per punire eventuali illeciti ma solo se:
- ciò non avviene con finalità preventive o random ma solo nei confronti di coloro su cui pendono indizi di irregolarità;
- il datore ha avvisato il dipendente, prima dell’avvio del rapporto di lavoro, della possibilità di controllo delle email.
Il datore di lavoro può chiudere l’email del dipendente?
Una volta che il rapporto di lavoro si è chiuso, il datore di lavoro non può lasciare aperto l’account email del dipendente ma deve chiuderlo, eventualmente predisponendo un sistema di risposta automatica a quanti invieranno delle comunicazioni, in modo da comunicare il diverso indirizzo a cui le stesse devono essere inoltrate. La violazione di tale regola costituirebbe una illegittima violazione della privacy.
L’account email può essere chiuso anche nel corso del rapporto di lavoro ma con un preavviso in modo tale che il dipendente possa fare una copia dei dati che gli interessano.
Cosa succede se il datore di lavoro blocca l’accesso all’email da parte del dipendente?
Il Garante della Privacy ha condannato una società a pagare 50mila euro perché senza alcun preavviso né comunicazione successiva, aveva inibito alla collaboratrice l’accesso al suo account, utilizzato per le relazioni commerciali, account che risultava però ancora attivo. La lavoratrice infatti continuava a ricevere sul suo computer e sul telefono gli avvisi e le richieste di immettere la nuova password di accesso, che era stata cambiata da remoto a sua insaputa.
Il principio affermato dall’Authority è il seguente: per quanto riguarda le regole sulla gestione della casella e-mail di agenti e collaboratori esterni da parte delle aziende, valgono le stesse garanzie di cui godono i dipendenti della società. Pertanto il lavoratore, l’agente, il titolare di un contratto co.co.co. e, più in generale, qualsiasi collaboratore interno o esterno deve sempre essere previamente informato in maniera esaustiva sul trattamento dei suoi dati mentre il datore di lavoro deve rispettarne i diritti, le libertà fondamentali e la reputazione professionale.
La società non può trattare i dati estratti dalla casella di posta, se non per la tutela dei diritti in sede giudiziaria e solo per il tempo necessario a tale scopo e dovrà garantire un tempestivo riscontro all’esercizio dei diritti di tutti i suoi lavoratori, rilasciando loro un’idonea, preventiva e documentata informativa sul trattamento dei dati personali, incluso l’utilizzo di Internet e della posta elettronica aziendale.
Impedimento alla visita fiscale di controllo, carattere della sanzione per assenza alla visita: le ultime dalla Cassazione in materia di visite fiscali
Impedimento alla visita fiscale di controllo
È legittimo il rigetto dell'istanza di rinvio dell'udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza per legittimo impedimento a comparire presentata dal condannato e documentata da un certificato medico, qualora l'indicazione nell'istanza della reperibilità del medesimo in un luogo diverso da quello in cui egli effettivamente si trovi abbia impedito l'esecuzione della visita fiscale di controllo. (Sez. 1, n. 26762 del 16/07/2020, Torres, Rv. 279784).
Cassazione, sentenza n. 35715 del 29/09/2021
Assenza visita fiscale, la sanzione non ha carattere disciplinare
La questione oggetto di giudizio non riguarda una sanzione disciplinare, ovverosia una prestazione imposta a titolo punitivo dal datore di lavoro, ma il regime delle obbligazioni al verificarsi di una malattia, allorquando risulti l'allontanamento del lavoratore negli orari di reperibilità utili allo svolgimento della c.d. visita fiscale. Ciò è reso evidente non solo dal richiamo nel provvedimento della norma di condotta del C.C.N.L. di pertinenza, chiaramente destinata a regolare i comportamenti obbligatori dovuti nell'ambito del rapporto di R. G. n. 22760/2015 lavoro (art. 21, co. 13, del citato CCNL secondo cui «qualora il dipendente debba allontanarsi, durante le fasce di reperibilità, dall'indirizzo comunicato, per visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi, che devono essere, a richiesta, documentati, è tenuto a darne preventiva comunicazione all'amministrazione»), quanto piuttosto dalla norma sulla cui base la P.A. ha agito con atto da essa stessa definito di "gestione" del personale (art. 5, co. 14 d.l. 463/1983 conv. con mod. in L. 638/1983, secondo cui «qualora il lavoratore, pubblico o privato, risulti assente alla visita di controllo senza giustificato motivo, decade dal diritto a qualsiasi trattamento economico per l'intero periodo sino a dieci giorni e nella misura della metà per l'ulteriore periodo, esclusi quelli di ricovero ospedaliero o già accertati da precedente visita di controllo»), da cui si desume come quella prevista sia una mera conseguenza obbligatoria, espressamente regolata dalla legge, destinata ad operare all'interno del rapporto previdenziale e quindi dell'I.N.P.S., quando sia tale ente, come nel lavoro privato, ad erogare il trattamento, oppure nei riguardi del datore di lavoro quando, come è nel pubblico impiego, sia quest'ultimo a corrispondere quanto dovuto, ai sensi di legge (ora art. 71 d.l. 112/2008, conv. con mod. in L. 133/2008) o di contrattazione collettiva.
Cassazione, sentenza n. 33180 del 10/112021
Accertamenti infermità per malattia del lavoratore
In tema di licenziamento per giusta causa, la disposizione di cui all'art. 5 St. lav. che vieta al datore di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente o lo autorizza a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l'assenza (Cass. n. 25162 del 2014; Cass. n. 11697 del 2020; Cass. n. 6236 del 2001). E' insito in tale giurisprudenza, invero, il riconoscimento della facoltà del datore di lavoro di prendere conoscenza di siffatti comportamenti del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento di attività lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti.
Cassazione, sentenza n. 30547 del 28/102021
Assenza ingiustificata dal domicilio: non rileva il dolo
L'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo — per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del DL. 12 settembre 1983 n. 463 (convertito nella legge n. 638 del 1983) prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico di malattia — non coincide necessariamente con la materiale assenza di quest'ultimo dal domicilio nelle fasce orarie predeterminate, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore, pur presente in casa, che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza di tale dovere di diligenza incombe sul lavoratore (v., ex plurimis, Cass. 22 maggio 1999 n. 5000).
Né ha rilievo che la mancata visita avvenga senza dolo da parte dell'interessato, perché ciò che è sanzionato è il fatto obiettivo in sé, indipendente dall'intenzione in concreto del lavoratore (Cass. 30 luglio 1993 n. 8484).
Cassazione, sentenza n. 4233 del 23.11.2021
Assenza giustificata alla visita fiscale
Il giustificato motivo di esonero del lavoratore in stato di malattia dall'obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo non ricorre solo nelle ipotesi di forza maggiore, ma corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l'allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza potersi peraltro ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità, dovendo pur sempre consistere in un'improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità".
Cassazione, ordinanza n. 24492 dell'1/10/2019
Assenza visita fiscale e condotta del lavoratore
L'ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo - per la quale l'art. 5, comma quattordicesimo, del D.L. 12 settembre 1983 n. 463, convertito, con modifiche, nella legge 11 novembre 1983 n. 638, - prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico dì malattia - non coincide necessariamente con l'assenza del lavoratore dalla propria abitazione, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore - pur presente in casa - che sia valsa ad impedire l'esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell'osservanza del dovere di diligenza incombe al lavoratore (cfr. Cass., 18 novembre 1991 n. 12534; 23 marzo 1994 n. 2816; 14 maggio 1997 n. 4216, Cass. 22 maggio 1999, n. 5000).
Cassazione, sentenza n. 19668 del 22/07/2019
Il documento elaborato da un gruppo di giuristi sui lavori dell'Osservatorio del Tribunale di Milano sulla nuova tabella a punti per il danno da perdita parentale
Sappiamo che, con riferimento al danno da perdita del rapporto parentale, con le pronunce più recenti (n. 10579/2021, in particolare) la Cassazione Civile, Sez. III, abbandona l'orientamento che insigniva le Tabelle del Tribunale di Milano di una vocazione nazionale.
Quella che segue è l'interessantissima lettera inviata in data 11 maggio 2022 dalla "Scuola di Formazione Giuridica ed Economica San Carlo" ai Presidenti del Tribunale di Milano e di Roma e al Presidente della Sez. III della Cassazione Civile, sottoscritta da autorevoli giuristi - si leggono in principio le firme dei prestigiosi Prof. Pigi Monateri ed Avv. Renato Ambrosio - in gran parte dell'area di Torino.
Buona lettura.
"Torino, 11 maggio 2022
C.A. Egr. Sig. Presidente del Tribunale di Milano
C.A. Egr. Sig. Presidente del Tribunale di Roma
C.A. Egr. Sig. Presidente della Terza Sez. Civile della S.C. di Cassazione Civile
Oggetto: c.d. nuove tabelle di liquidazione del danno ai congiunti della vittima primaria, Tribunale di Milano (necessità di una pausa di riflessione prima della loro "approvazione").
Inviamo la presente comunicazione in qualità di operatori del diritto impegnati nella tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, avvocati che in giudizio assistono le vittime degli illeciti.
E ci rivolgiamo alle posizioni di vertice di codesto Tribunale di Milano estendendola per conoscenza anche al Presidente della III Sez. Civile della S.C., estremamente preoccupati della affermata imminente approvazione di nuove tabelle di liquidazione del danno ai congiunti della vittima primaria.
Infatti, stando alle notizie di stampa pubblicate su Il Sole 24 Ore sia il mese scorso che in quello presente sembrerebbe che i lavori della terza commissione interna all'Osservatorio della giustizia civile del Tribunale di Milano stiano mettendo a punto le modifiche a tale tabella adottando sì il sistema c.d. "a punti" raccomandato dalle recenti sentenze della Corte di cassazione, ma con modalità e sostanza che appaiono in contrasto con i valori disposti dagli artt. 24 Cost, 6 CEDU e 47 CFUE e che infatti sono state oggetto di aspre critiche, così come è stato oggetto di forte censura il c.d. gruppo di lavoro per quella che è stata descritta una mancanza di trasparenza e di metodo.
È evidente che tale tabella una volta approvata potrà avere ruolo centrale in molti giudizi nel panorama nazionale, ed è nostro preciso intento richiamare l'attenzione degli Egregi Sigg.Giudici sui seguenti punti:
- non è tollerabile l'affermazione già palesatasi in precedenza secondo cui il quantum da risarcirsi alle vittime di una persona che ha perso la vita per illecito di terzo sia stretto tra esigenze di tutela e soddisfazione della vittima e "tenuta del sistema assicurativo": osserviamo infatti che il diritto alla salute e alla vita sono costituzionalmente protetti "in un contesto istituzionale contraddistinto dalla centralità dei diritti dell'uomo" (SS.UU Civ. sent. n. 28180/20) ma tenuta del sistema assicurativo non lo è. Osserviamo inoltre che il sistema assicurativo, ancorché obbligatorio per l'assicurato, genera lucro a favore dell'impresa che non è obbligata affatto a permanere nel mercato qualora non lo ritenga di proprio interesse. Se invece rimane nel mercato in quanto interessata ai gains che ottiene non acquisisce perciò soltanto -anzi non lo acquisisce per nulla- la veste di soggetto portatore di diritti costituzionali di pari rango del congiunto che piange il familiare ucciso: si tratta semplicemente di soggetto che svolge un'iniziativa privata economica libera e che consapevolmente decide di occupare e/o mantenere una porzione del mercato...e che può abbandonarlo se non lo desidera più. Mentre il congiunto della vittima morta per illecito è costretto ad essere parte del sistema. Dunque appare del tutto improvvido portare -come si potrebbe dire- in compensazione le due diverse posizioni nei calcoli di quanto debba essere risarcito qualora intervenga la morte a causa di un illecito: l'interesse principale del mondo assicurativo (fare ricavi e utili) deve restare fuori dalle dinamiche elaborative della tabella.
- Ciò ci conduce anche a commentare quella che pare essere una scarsa rappresentatività numerica all'interno del gruppo di lavoro che sta lavorando all'elaborazione di detta tabella di rappresentanti dei danneggiati rispetto ai rappresentanti degli assicuratori dei danneggianti. Invero, se per costituzione e legge i magistrati che fanno parte di tale consesso non possono che essere imparziali ed equidistanti dagli interessi in gioco, non altrettanto è possibile dire né pretendere per avvocati e medici legali. Tuttavia ci pare di capire che il numero di coloro che rappresentano esclusivamente le vittime sia inferiore al numero di coloro che rappresentano esclusivamente, o preponderantemente, i danneggianti e i loro assicuratori. Ciò pone chiaramente il lavoro del gruppo milanese sin qui compiuto in una condizione di asimmetria che riteniamo debba essere obbligatoriamente emendata in futuro in senso quantitativo (rendere sicuramente paritario il fronte vittime con il fronte assicurativo, quantomeno) il che passerebbe prima per una doverosa esplicitazione degli interessi in gioco mediante una chiara e formale dichiarazione del settore nei cui favore si opera (es.: vittime di sinistri stradali/società assicuratrici dell'RCA), essendo a tutti chiaro che l'importanza delle tabelle milanesi sia tale per cui l'interesse del mondo assicurativo industriale1 è certamente rappresentato all'interno di tale consesso ancorché probabilmente ancora senza quella che dovrebbe essere una chiara e trasparente dichiarazione2. Le considerazioni che precedono influiscono pertanto sulla validità delle proposte della c.d. nuova tabella dovendosi peraltro già rilevare, non senza preoccupazione, una tendenza fortemente penalizzante per le vittime con le precedenti due tabelle, con sostanziale riduzione degli importi risarciti, proposte dall'Osservatorio milanese nel 2018, relative ai casi di premorienza ed ai "danni terminali", peraltro criticate anche sul piano tecnico-scientifico dalla medicina legale.
3. Parimenti da censurare è l'utilizzo come criterio di riferimento nella c.d. nuova tabella della "media", tratta, in relazione ad alcune fattispecie, dai risarcimenti liquidati negli anni passati: infatti in questo modo i valori risarcitori per il futuro vengono irrimediabilmente abbassati e dunque resi meno tutelanti dalla mancata considerazione: 1) dell'aumento negli anni dei valori ritenuti risarcibili (le tabelle del 2021 contengono valori più alti del 2011, anno in cui inizia il "monitoraggio", peraltro avente ad oggetto nel suo complesso un numero ristretto di sentenze afflitte dalle medesime critiche che seguono) nonché 2) dagli errori professionali e dalle underperformances dei colleghi che abbiano rappresentato le vittime-attori di quei passati processi. Ad esempio l'omessa deduzione di capitoli di prova, l'omessa produzione di documentazione sanitaria rilevante, l'omessa allegazione circostante atti a consentire un risarcimento pieno secondo le allora vigenti tabelle del tribunale diMilano avranno senz'altro condotto il tribunale in quella specifica fattispecie a liquidare meno di quanto le tabelle stesse prevedessero come massimo. Chi deve fare le spese di tale errore o underperformances professionale? Di certo non la platea delle persone oggi fisicamente integre e vive per la cui morte si terranno nei prossimi mesi e anni contenziosi avanti i tribunali! Analogamente tale procedura soffre inoltre 3) degli errori professionali o underperformances dei magistrati di primo e di secondo grado milanesi
1 Il fatto che a dare continuamente notizia dell'avvenuta ancorché non vera approvazione definitiva delle tabelle sia il quotidiano edito da Confindustria segna e conferma inequivocabilmente la questione.
2 Con questo intendiamo dire che è possibile che fra i membri dell'osservatorio/gruppo di lavoro siedano giuristi peraltro di indiscussa capacità professionale che fungono da portavoce degli interessi commerciali delle imprese assicuratrici, con il rischio di essere scambiati per portatori di opinioni neutre anziché di precise istanze imprenditoriali di parte certamente finalizzate a ridurre il più possibile l'area del risarcito.
che abbiano avuto in gestione tali casi: se questi ultimi hanno in quei casi passati liquidato meno di quanto si sarebbe dovuto ma, per una qualunque ragione, quelle sentenze non sono state impugnate dalla parte attrice3, tali sentenze fanno e hanno fatto media influendo negativamente ed indebitamente su quelli che sono i valori che per il futuro dovranno indicare i riferimenti per la liquidazione. D'altronde può anche essere successo che una sentenza che in secondo grado ha liquidato meno di quanto dovuto sia poi stata impugnata in sede di legittimità e sia poi ritornata presso la corte territoriale per una nuova quantificazione: nell'ipotesi in cui ciò si sia verificato, la media aritmetica fra i due risultati è certamente inferiore al valore corretto definitivo che il distretto milanese ha poi deciso di affidare a quel caso con la sola sentenza 'buona' che è la ultima in ordine di tempo, e l'operazione di mediare fra tutti i casi disponibili ha trascurato quest'ultimo passaggio andando a valorizzare pure il precedente riformato, abbattendo anche in questo caso illogicamente i futuri ratei compensativi per i casi a venire!
4. Al contrario, poiché nella quasi totalità dei casi i tribunali non oltrepassano mai i limiti massimi, questo procedimento che si innesta sui valori medi degli ultimi anni sarà sempre di più destinato ad abbassare costantemente la curva dei valori massimi dal momento che mancheranno sempre quegli elementi compensativi verso l'altro che potremmo chiamare fuori dal coro, oltre i massimi, talmente alti da bilanciare il progressivo abbattimento dovuto alle ragioni poco sopraindicate. Basti pensare all'esperienza scolastica pregressa: era sufficiente un voto 4 per abbattere irrimediabilmente la media fino a fine semestre. Dopo tre voti 8 conseguiti uno dietro l'altro, lo studente che prende anche un (solo) voto 4 deve poi prendere due voti 10 per ritornare a tale media dell'8 - un'impresa già davvero difficile per un singolo studente, ma impossibile nel novero di migliaia di singoli diversi operatori del diritto attoreo ciascuno dotato di individualità e debolezze. Deve quindi obbligatoriamente essere introdotto un correttivo che tenga conto, innalzandone sostanziosamente i valori, dell'intrinseca debolezza del sistema a media valori passati.
Fatte queste premesse di metodo non possiamo poi non osservare negativamente nel merito da quanto appare dalla consultazione di queste proposte di tabella che:
3. Diamo per scontato che vi sia piena comprensione da parte vostra dell'ostacolo all'accesso alla giustizia nell'impugnare la sentenza solo sul quantum dopo l'enorme sofferenza l'uccisione di congiunto.
- Parrebbe che i valori massimi previsti per il futuro dalla c.d. nuova tabella milanese non sarebbero altro che i valori medi tratti dal monitoraggio delle sentenze che hanno applicato la tabella milanese attuale: ciò si traduce in una clamorosa, immotivata ed inaccettabile riduzione degli standard compensativi per perdita della vita del congiunto.
- Operando una comparazione tra la tabella di Roma e la proposta di nuova tabella di Milano risulterebbe che i parametri uniformi di base - quelli retti sulle sole circostanze"anagrafiche" oggettive (dunque a prescindere da ogni personalizzazione) - in quest'ultima tabella conducano a liquidazioni incommensurabilmente inferiori rispetto alla prima. Tutti sappiamo quanto in sede di trattative stragiudiziali vi sia la tendenza delle imprese assicuratrici a livellare la loro disponibilità conciliativa sui parametri di base; tale impostazione non è estranea a taluni magistrati.
- Questa prospettiva già di per sé negativa si aggrava ulteriormente in relazione a congiunti quali i fratelli ancora una volta penalizzati nella proposta di tabella milanese ultima che non è andata a rimediare all'errore commesso nel 2009 di non "aggiornare"i valori al modello delle Sezioni Unite del 2008 (danno morale da lutto + danno parentale) come invece operato per congiunti quali genitori, figli, coniugi. Il divario tra congiunti distanzia la proposta di nuova tabella milanese in approvazione dai valori monetari di base riconosciuti dalla tabella romana, di per sé già abbisognevole di riforma sul quantum, aggravando ancor di più il contenzioso.
- Sembra inoltre che venga previsto un sistema di cosiddetto "cap" oltre il quale pur sussistendone i presupposti, il magistrato non possa o non debba andare nella liquidazione del danno, dovendo anzi ridimensionare i punti attribuiti dalla stessa tabella, pertanto con una paradossale livella con riferimento ai casi da ritenersi più gravi. Ciò - aggravato anche dalla pretesa, per quanto consta non supportata dal"monitoraggio", di includere la "agonia/penosità/particolare durata della malattia della vittima primaria laddove determini una maggiore sofferenza nella vittima secondaria" - oltreché apparire evidentemente illogico appare essere anche contrario alle spinte giurisprudenziali verso la onnicomprensività e la completezza del danno risarcito nonché alla funzione di deterrenza (si pensi all'approvazione in sede di legittimità del principio del danno-punizione) ormai propria delle responsabilità civile. E allora se il giudice ritiene che soltanto una certa cifra sia idonea a compensare il danno subito e che dunque solo quella somma sia quella completa ed onnicomprensiva, è evidente che anche un solo un centesimo di euro in meno faccia crollare tale costruzione.
5. Vogliamo citare due recenti casi a conforto di un profondo ripensamento del percorso sin qui intrapreso:
1. Il Tribunale di Genova con sent. 19.1.2022 all'RG n. 3038/2018 ha liquidato il massimo della c.d. tabella milanese attualmente vigente a favore del fratello per il decesso del congiunto basandosi esclusivamente su prove di natura presuntiva dunque senza procedere all'escussione dei testi. È evidente che questo ponga una questione molto forte: è credibile l'ipotesi che il tribunale di Genova avrebbe liquidato di più della somma indicata come attuale "massimo"dalle vigenti tabelle milanesi se tale somma fosse stata più alta nelle tabelle. Oppure, in alternativa che tribunale di Genova avrebbe liquidato di più di tale massimo se avesse proceduto a sentire testi e a recepire l'intima convinzione del magistrato giudicante la lucida e profonda sofferenza del congiunto, quel dolore che di certo non può certamente recepito dalla mera lettura delle allegazioni, seppur non contestate.
2. Il Tribunale di Milano con sent. n. 2149/2020all'RGn.47332/2015 ha liquidato oltre le proprie tabelle in un caso di lunga temporanea con una personalizzazione che anziché fermarsi ai limiti del +29% o +33% è diventata del + 94%: "...si reputa che la voce di danno non patrimoniale così liquidato(i.e.: il massimo delle tabelle) non possa integralmente ristorare il pregiudizio morale...Il peculiare senso di prostrazione non può infatti essere ritenuto riparato in virtù dei soli valori, pur massimi, della Tabella di Milano...poiché gli stessi sono stati individuati per fungere da parametro di liquidazione per comuni lesioni colpose derivanti da fatto illecito. Infatti il patimento...derivante dall'irrefrenabile pulsione per il gioco d'azzardo e per le gravissime conseguenze pregiudizievoli che ciò ha comportato per la sua vita e per quella della sua famiglia, nonché la grave sofferenza e la disperazione, in particolare successiva alla sospensione della terapia farmacologica e alla presa di coscienza delle condotte incontrollate, tenute per oltre cinque anni consecutivi e tenuto conto della portata degli effetti collaterali, tali da rendere la vita vissuta...come quella di un altro, legittimano il riconoscimento di una ulteriore somma, pressoché pari a quella riconosciuta a titolo di danno da invalidità temporanea. A titolo di danno non patrimoniale si reputa pertanto congruo liquidare, all'attualità, la somma di complessivi euro 200.000,00" (L.B. vs. Pfizer, confermato da Corte appello Milano con sent. n.1353/2021 all'RG n. 1368/2020). Il Giudice deve pertanto essere lasciato libero di andare oltre i massimi individuati con criteri di pienezza ed equità e scevri da contaminazioni da parte del mondo assicurativo, ogni qualvolta la fattispecie concreta lo induca a farlo.
Il rischio che vediamo concretissimo qualora le nuove tabelle di Milano dovessero essere pubblicate con tali peculiarità e comunque con un contenuto liquidativo reale in ribasso rispetto agli attuali valori, anziché in rialzo, è la moltiplicazione massiccia e ferrea del contenzioso con effetti nefasti a danno di tutti gli attori del processo ma ovviamente in primis delle vittime, costrette dopo il lutto sofferto ad una ulteriore serie di angherie e patimenti da lite giudiziaria (esistenza della quale la stessa giurisprudenza definisce, pur con riferimento alle condotte di malafede processuale, come autonome fonti di danni risarcibili ai sensi dell'articolo 96 cpc).
Riteniamo che le tabelle di Milano possano svolgere e continuare a svolgere quel ruolo di ispirazione o di ispirazione condivisa a livello nazionale solo se, discostatesi dai parziali risultati anticipati nelle ultime settimane. recepiranno oltre al metodo "romano" approvato dalla Cassazione anche una reale sostanza di quantum compensativo incrementale rispetto all'attuale e idoneo a coprire tutti i danni patiti ed esercitare quella funzione deterrente alla commissione di ulteriori illeciti che appare elemento basilare della responsabilità civile.
Molti distinti saluti."
L'indegnità a succedere, che comporta l'esclusione dalla successione, viene dichiarata con sentenza nei confronti del soggetto che compia uno degli atti previsti dall'art 463 c.c. Solo il de cuius può riabilitare in tutto o in parte l'indegno
Indegnità a succedere: cos'è
L'indegnità a succedere, disciplinata dagli artt. 463 - 466, contenuti nel Il Capo III, Titolo I, Libro II del Codice Civile è un istituto in virtù del quale un soggetto, che ha tenuto un comportamento biasimevole nei confronti di un altro, nel momento in cui quest'ultimo muore e si apre la successione legittima o testamentaria, viene escluso dalla successione, perché appunto indegno di succedere al de cuius.
Per la collocazione dell'istituto all'interno del Codice civile, la dottrina ritiene che l'indegno abbia la capacità di succedere nell'eredità. Il problema è che non può conservare tale posizione, anche se la giurisprudenza sul punto è ancora controversa, come vedremo.
Ratio dell'istituto
L'indegnità a succedere è un istituto che, nonostante l'indubbia incidenza che la relativa dichiarazione determina nella sfera giuridica del successibile, risulta di fatto poco conosciuto alla platea dei "non addetti ai lavori" ed altresì spesso confuso con altre e diverse figure più o meno tipizzate.
La ratio sottesa all'istituto in esame si apprezza anzitutto alla luce di una prospettiva di natura sociale ed etica più che prettamente giuridica e individuabile nella circostanza che la coscienza collettiva non accetta che il soggetto il quale si sia reso responsabile di atti e/o condotte gravemente pregiudizievoli verso il proprio de cuius possa egualmente succedergli al pari degli altri chiamati all'eredità.
Chi è indegno a succedere
Scendendo nel pratico, sono considerati indegni a succedere al de cuius i soggetti che hanno compiuto gli atti elencati tassativamente nell'art. 463 c.c. e che possono raggrupparsi come di seguito:
a) Atti compiuti contro la persona fisica (omicidio doloso, omicidio tentato) o contro la personalità morale (calunnia, falsa testimonianza) del de cuius, oppure del coniuge o del discendente o dell'ascendente di costui.
b) Atti diretti con violenza o dolo contro la libertà di testare del de cuius, quali l'aver indotto il testatore a redigere un testamento, ovvero a revocarlo o a modificarne le disposizioni; l'aver distrutto, occultato o alterato il testamento; l'aver formato o consapevolmente utilizzato un testamento falso.
In relazione a queste ipotesi contemplate dall'art. 463 c.c. ai n. 5 e 6 la recente Cassazione n. 19045/2020 ha chiarito che il primo caso "prevede come causa di indegnità l'ipotesi di chi ha soppresso, celato o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata" mentre il secondo " regola il caso della formazione o dell'uso consapevole di un testamento falso: con la differenza che mentre nella prima ipotesi è richiesta la presenza di un atto destinato a regolare la successione che sia valido ed efficace per i suoi requisiti intrinseci ed estrinseci, nella seconda, invece, la norma, facendo riferimento alla formazione o all'utilizzo di un testamento falso, prescinde completamente da un precedente atto idoneo a manifestare validamente la volontà del testatore.£
c) Decadenza dalla responsabilità genitoriale. Si tratta di un'ipotesi di indegnità prevista dal numero 3 bis dell'art. 463 c.c. e introdotta dall'art. 1 L. 08/07/2005, n. 137, la quale dispone che sia escluso dalla successione del figlio il genitore che sia stato dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale ai sensi dell'art. 330 c.c.
Sospensione dalla successione art. 463 bis c.c.
Occorre altresì ricordare che la L. 11/01/2018, n. 4 ha introdotto il nuovo art. 463 bis c.c. in forza del quale il coniuge, la parte dell'unione civile, il figlio, il fratello o la sorella del de cuius, che siano indagati per l'omicidio volontario o tentato nei confronti di lui, sono sospesi dalla successione fino all'esito del giudizio.
Ai fini della sospensione dalla successione è necessario che il Pm "compatibilmente con le esigenze di segretezza delle indagini" comunichi senza ritardo alla cancelleria del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione l'avvenuta iscrizione nel registro delle notizie di reato.
Qualificazione giuridica
Sulla qualificazione giuridica della indegnità a succedere la giurisprudenza di legittimità ne ha escluso la natura di status personale del soggetto, così come di incapacità all'acquisto ereditario.
Alla fine è quindi giunta ad identificare l'istituto di cui agli artt. 463 e ss c.c. in termini di "sanzione civile di carattere patrimoniale avente un fondamento pubblicistico e che da luogo ad una causa di esclusione dalla successione" (cfr. Cass., Civ. Sez., II, 25/02/2019, n. 5411).
La definizione testé offerta, lungi dall'avere una portata meramente classificatoria, riverbera in realtà i propri effetti sia sul piano sostanziale che su quello processuale.
Infatti, qualora si concludesse circa l'appartenenza dell'indegnità all'alveo delle ipotesi di incapacità a succedere ciò significherebbe sostenere la radicale assenza - in capo all'indegno di qualsiasi effetto acquisitivo. Ciò in quanto soggetto sin dall'inizio inidoneo all'acquisto dei diritti ereditari originati dalla delazione. Ne deriverebbe conseguentemente da un lato la nullità dell'accettazione e dall'altro la natura meramente dichiarativa della sentenza che accertasse l'indegnità del successibile.
Al contrario, dovendosi, come detto ritenere l'istituto quale causa di esclusione dall'acquisto al verificarsi di uno dei presupposti elencati dall'art. 463 c.c., l'eventuale accettazione da parte del dell'indegno non risulta affetta da nullità ab origine ma sarà se del caso travolta con effetti retroattivi solo a seguito di una pronuncia di natura costitutiva passata in giudicato (cfr. Cass., Ult. Cit e Cass., Civ. Sez., II, 05/03/2009, n. 5402).
A conferma della natura eterogenea delle due fattispecie rispettivamente dell'indegnità e dell'incapacità permangono le seguenti ulteriori differenze: se l'azione volta a far dichiarare l'incapacità di succedere è imprescrittibile, quella funzionale alla pronuncia di indegnità si prescrive nel termine ordinario di cui all'art. 2946 c.c. (ovvero dieci anni), il quale decorre dal giorno dell'apertura della successione ovvero dal momento in cui l'interessato ha certezza della causa di indegnità (cfr. Cass., Civ. Sez., II, 29/11/2016, n. 24252).
Come funziona l'indegnità a succedere
Dal tenore dell'art. 464 c.c., emerge che l'indegnità viene pronunciata con sentenza costitutiva che ha effetto retroattivo. L'indegno è dunque considerato come se non fosse mai stato erede e per questo è tenuto a restituire i frutti che gli sono pervenuti dopo l'apertura della successione.
L'azione per la dichiarazione di indegnità, dal punto di vista procedurale, va promossa con atto di citazione con invito rivolgo all'indegno di costituirsi in giudizio.
La parte della dottrina che qualifica l'indegnità come una incapacità a succedere, prevede che l'azione di esclusione dalla successione si prescriva nel termine di 10 anni, che decorre dall'apertura della successione o da quando il soggetto ha commesso l'atto indegno. Il tutto ovviamente in base al momento in cui il fatto si è verificato, ossia prima o dopo la morte del de cuius.
Trattandosi di una sanzione (civile) di natura strettamente personale, la dichiarata indegnità però non si trasmette o comunica ai discendenti dell'indegno, in quanto ha carattere relativo.
Al fine tuttavia di limitare al massimo qualsivoglia ipotetico vantaggio, all'indegno non spetta neppure nè l'amministrazione nè l'usufrutto legale sui beni pervenuti ai propri figli dalla successione dalla quale è stato escluso (art. 465 c.c.).
Chi può richiedere l'indegnità
L'indegnità non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, occorre che venga formulata apposita domanda da parte dell'interessato, ovvero di colui il quale viene alla successione in luogo dell'indegno (cfr. Cass., Civ. Sez., II, 19/03/2018, n. 6747).
L'azione finalizzate alla dichiarazione di indegnità può essere richiesta in particolare dai soggetti che sono stati chiamati all'eredità dal de cuius in subordine all'indegno. Lo si desume dalla disposizione di cui all'art. 464 c.c., che pone in capo all'indegno l'obbligo di restituire i frutti a lui pervenuti dopo l'apertura della successione.
Sono altresì legittimati all'azione per ottenere la dichiarazione di indegnità anche coloro che, per rappresentazione, subentrano all'indegno, ossia i suoi discendenti, così come i creditori di chi riceve l'eredità.
Effetti dell'indegnità a succedere
Dopo la dichiarazione di indegnità, l'eredità passa ai chiamati in subordine. Si procede quindi alla devoluzione dell'eredità attraverso la rappresentazione, la sostituzione o la rappresentazione. In caso contrario l'eredità passerà agli eredi legittimi del de cuius.
Nel caso in cui poi l'azione di indegnità venga promossa prima che l'indegno abbia accettato l'eredità, ma comunque dopo l'apertura della successione, allora il suo diritto di accettazione dell'eredità passa ai suoi eredi.
Che cosa succede però se il soggetto poi dichiarato indegno, in qualità di successore abbia compiuto degli atti sui beni ereditari?
In questo caso a rilevare sono gli atti straordinari visto che quelli ordinari sono finalizzati solo alla conservazione. Detto questo occorre distinguere a seconda che gli atti di natura straordinaria siano stati compiuti a titolo gratuito o oneroso.
Quelli a titolo gratuito perdono efficacia con la sentenza che dichiara l'indegnità, quelli onerosi invece perdono efficacia a meno che i terzi non riescano a dimostrare di essere in buona fede al momento della contrattazione e di non essere a conoscenza dell'indegnità. In questi casi quindi vengono fatti salvi i diritti acquisiti.
Il genitore indegno
Un'ipotesi particolare di indegnità, che il nostro ordinamento prevede, è quella del genitore di cui all'art. 465 c.c. che così dispone: "Colui che è escluso per indegnità dalla successione non ha sui beni della medesima, che siano devoluti ai suoi figli, i diritti di usufrutto o di amministrazione che la legge accorda ai genitori."
La norma mira ad evitare che il soggetto dichiarato indegno, aggiri l'ostacolo rappresentato dalla propria indegnità, amministrando o beneficiando indirettamente dell'eredità del de cuius in virtù degli effetti positivi dell'usufrutto.
La riabilitazione dell'indegno
Il successibile dichiarato indegno con sentenza costitutiva passata in giudicato può comunque essere però riabilitato dal de cuius (art. 466 c.c.).
La riabilitazione distingue ancora una volta la figura dell'indegnità dall'incapacità di succedere. Quest'ultima infatti non conosce e non ammette rimedi di sorta.
Riabilitazione totale e parziale
Orbene, la riabilitazione - che può pervenire esclusivamente da parte del soggetto della cui successione si tratta può essere totale o parziale.
La prima ipotesi si verifica in forza di una dichiarazione espressa del de cuius contenuta in un atto ad hoc avente forma di atto pubblico o in un testamento.
La seconda si ha se l'indegno viene contemplato in un testamento in qualità di destinatario di una certa disposizione. In quest'ultimo caso tuttavia (art. 466 comma II c.c.) il successibile già dichiarato indegno è ammesso a succedere nei limiti della disposizione posta a suo favore. Costui non potrà ricevere niente come successore legittimo così come non potrà intraprendere l'azione di riduzione se quanto ricevuto risulti inferiore alla quota di riserva.
Indegnità e diseredazione
L'indegnità a succedere non deve essere confusa con la c.d. diseredazione, che si realizza quando, con una disposizione testamentaria il de cuius dichiara di non volere che alla propria successione partecipi un determinato soggetto, che in forza delle norme sulla successione legittima, ne avrebbe al contrario pieno titolo.
Pacifico che una siffatta disposizione non potrebbe in alcun modo ledere i diritti che la legge attribuisce ai successori necessari (in quanto previsti da disposizioni inderogabili).
Dall'altro però ci si domanda se il testatore ha il diritto di inserire nel proprio testamento una disposizione negativa (nel senso di esclusiva) nei confronti di un successibile ex lege, non legittimario.
La giurisprudenza ha rilevato che una disposizione testamentaria di questo tipo - purché non leda i diritti dei riservatari - non potrebbe ritenersi di per sé invalida e/o inefficace in quanto non si pone in contrasto con alcuna norma imperativa.
Nella Cass., Civ. Sez., II, 25/05/2012, n. 8352, si argomenta infatti l'ammissibilità di una tale disposizione in quanto in linea con la natura personalissima dell'atto di ultima volontà diretto a regolare la distribuzione delle sostanze del testatore per il periodo successivo alla propria scomparsa.
Esclusione dalla successione del genitore decaduto dalla responsabilità
Il codice civile tuttavia, all'art. 448 bis c.c. prevede un'ipotesi tipica di diseredazione.
In questo caso infatti i figli e, in mancanza, i loro prossimi discendenti possono escludere dalla successione i genitori che siano decaduti dalla responsabilità genitoriale per ragioni diverse da quelle integranti i casi di indegnità di cui all'art. 463 c.c.
Il nuovo catasto potrebbe essere creato nel 2026 e non avrà legami con l'andamento dei prezzi di mercato
Sulla riforma fiscale dopo la stasi e la quasi rottura dei giorni passati si arriva ad «un'intesa con Palazzo Chigi per rivedere gli articoli 2 e 6 della delega fiscale'. Un passaggio che sblocca il centrodestra, che da mesi conduce la ferma opposizione sui nuovi criteri di mappatura degli immobili, l'unica soluzione sarebbe stata la richiesta di fiducia in Aula sul testo originario. Ora Lega e Forza Italia hanno trovato un accordo col governo. Come chiarito in una nota stampa eliminato ogni riferimento al sistema duale, preservando i regimi cedolari esistenti e garantendo una armonizzazione del sistema fiscale - ed - eliminato ogni riferimento ai valori patrimoniali degli immobili, consentendo l'aggiornamento delle rendite secondo la normativa attualmente in vigore e senza alcuna innovazione di carattere patrimoniale». Il catasto verrebbe dunque aggiornato progressivamente, ma senza toccare gli attuali criteri. In più «Esclusa anche in questo caso la possibilità di nuove tasse sulla casa». Il testo torna ora in commissione.
Catasto, nessun riferimento esplicito al valore patrimoniale
L'iter è ancora lungo per arrivare ad un nuovo catasto, ma di certo c'è che le attuali informazioni verranno "integrate" con lo scopo di rendere disponibili nuove informazioni a partire dal primo gennaio 2026 e «non possano essere utilizzate per la determinazione della base imponibili dei tributi la cui applicazione si fonda sulle risultanze catastali». Il passaggio previsto è quello da un regime "catastale" ad un "patrimoniale" basato su valori reali.
Immobili fantasma
Altra vittoria del centrodestra è che le aliquote Imu possano essere ridotte per effetto dell'emersione degli immobili fantasma. L'intesa raggiunta, continua la nota «consente di respingere una volta per tutte l'aumento di tasse e conferma la responsabilità del centrodestra di governo che ha lavorato in queste settimane ad una intesa. Il centrodestra che sostiene l'esecutivo ha dimostrato che il miglior modo per tutelare gli italiani è governare con responsabilità, ma senza mai derogare ai propri valori».
Comuni in dissesto e aumento dell'Irpef
Per quanto riguarda tasse e comuni, l'ultima bozza del decreto Aiuti stabilisce i comuni-capoluogo di provincia, che siano in dissesto finanziario, con un disavanzo pro-capite superiore ai 500 euro, possano decidere di aumentare l'Irpef, oltre i limiti ora previsti: insieme a questo resta il taglio delle spese, l'aumento dei canoni delle concessioni e degli affitti, o di valorizzare, in pratica cedere, parte del proprio patrimonio.
Quanto tempo per richiedere gli alimenti all’ex? Dopo quanto tempo decadono gli assegni di mantenimento?
Tutti i debiti hanno un termine di prescrizione scaduto il quale il creditore non può più rivendicare il relativo pagamento. Questa regola non ha eccezioni, neanche quando si tratta di assegno di mantenimento dovuto all’ex moglie o ai figli, secondo l’importo liquidato dal giudice nella relativa sentenza di separazione o divorzio. Per cui, se il coniuge beneficiario non esige formalmente tali importi entro i tempi fissati dalla legge, non può poi richiederli in un momento successivo. Ma dopo quanto tempo decadono gli assegni di mantenimento? In altre parole, quanto tempo c’è per richiedere gli alimenti all’ex? La questione – inerente appunto alla prescrizione dell’assegno di mantenimento – è stata spesso oggetto di chiarimenti da parte della giurisprudenza. Ecco come funziona la prescrizione dell’assegno di mantenimento e cosa c’è da sapere in merito.
Che differenza c’è tra alimenti e mantenimento?
Nel gergo comune, spesso si usa la parola «alimenti» per riferirsi all’«assegno di mantenimento». Tuttavia, nella terminologia giuridica, si tratta di due cose completamente diverse. Gli alimenti sono le somme dovute, dai familiari più stretti, a chi si trova in una condizione fisica ed economica di forte bisogno, tale da metterne a rischio la stessa sopravvivenza (si pensi all’invalido malato che non può lavorare). In tali ipotesi la legge elenca una serie di soggetti tenuti a intervenire in suo soccorso, secondo un ordine che antepone i parenti di grado più stretto e, in mancanza di questi o in caso di loro incapacità, quelli di grado più remoto. Così, ad esempio, l’obbligo degli alimenti ricade innanzitutto sul coniuge; ma se questi non c’è o è incapace di provvedere, sono obbligati i figli, i nipoti, poi i genitori, i generi e nuore, suocero e suocera, fratelli e sorelle. Leggi sul punto Come chiedere gli alimenti.
Inoltre, gli alimenti sono una misura strettamente rivolta a garantire la sopravvivenza. Al contrario il mantenimento è diretto a garantire un tenore di vita che soddisfi anche bisogni non strettamente connessi ai beni di prima necessità; l’importo pertanto è quasi sempre più elevato.
Ad esempio l’ex moglie ha diritto a ottenere un mantenimento che le consenta di godere di un tenore di vita dignitoso. Per i figli l’importo è ancora più elevato, avendo diritto a mantenere lo stesso tenore di vita dei genitori.
Dicevamo in partenza però che, nel linguaggio comune, alimenti e mantenimento vengono usati come sinonimo. A questo uso ci conformeremo in questo articolo dedicato precisamente al mantenimento che va versato all’ex coniuge o ai figli in caso di separazione o divorzio. Quindi, in questa sede, non tratteremo gli «alimenti» in senso stretto.
Alimenti all’ex e ai figli: quando vanno in prescrizione?
Come tutti i pagamenti che vanno effettuati periodicamente, gli alimenti all’ex coniuge e ai figli si prescrivono dopo cinque anni. A stabilirlo è l’articolo 2948 del codice civile (n. 4): «si prescrive in cinque anni tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi».
C’è da dire però che, come tutti i termini di prescrizione, anche quello relativo al mantenimento può essere interrotto. L’interruzione può avvenire con un qualsiasi atto di esercizio del diritto stesso come una diffida o un sollecito di pagamento, purché avvenga per iscritto o con qualsiasi altro strumento che consenta la prova del ricevimento dello stesso da parte del destinatario (ad esempio una raccomandata consegnata a mani o una pec).
Questo significa che il coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, dinanzi all’inadempimento dell’ex, è tenuto a diffidarlo o a farsi rilasciare da questi una ammissione di debito per iscritto; diversamente perde il proprio diritto anche se lo ha sollecitato verbalmente, con sms, whatsapp o email.
Da quando decorre il termine di prescrizione degli alimenti?
Il termine di prescrizione dell’assegno di mantenimento inizia a decorrere dalle singole scadenze di pagamento. Quindi ogni mensilità ha un autonomo termine di prescrizione che scade dopo cinque anni decorrenti dall’ultimo del mese in questione.
In pratica il diritto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento, in quanto avente ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, si prescrive non a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della sentenza di separazione o di divorzio, bensì dalle singole mensilità di pagamento.
Quando vanno in prescrizione interessi e rivalutazione monetaria del mantenimento?
Ciò che abbiamo appena scritto vale anche per quanto riguarda gli interessi e la rivalutazione monetaria. Anche in questo caso, il diritto a percepire gli importi relativi alla rivalutazione monetaria dell’assegno periodico di mantenimento (adeguamento Istat) si prescrive nel termine di cinque anni dalla singola scadenza di pagamento.
A chi spetta l’assegno di mantenimento?
In caso di separazione o divorzio dei coniugi l’assegno di mantenimento spetta all’ex coniuge con il reddito più basso e ai figli minorenni, ai figli maggiorenni non ancora autosufficienti e, in ultimo, ai figli portatori di handicap.
Quanto al mantenimento all’ex coniuge, questo spetta solo se:
- vi è una disparità di reddito tra i due coniugi e di ciò non sia responsabile il coniuge richiedente (questi, quindi, non deve avere le capacità, fisiche e formative, di lavorare o procurarsi di che vivere);
- oppure ha rinunciato alla propria carriera per dedicarsi alla famiglia e alla casa.
Quanto al mantenimento ai figli, questo spetta a patto che:
- siano ancora minorenni o portatori di handicap;
- o, se maggiorenni, privi di indipendenza economica. La dipendenza dai genitori, però, non può durare in eterno. I figli hanno l’obbligo, una volta divenuti maggiorenni, di formarsi o di cercare lavoro. In assenza dell’una o dell’altra scelta, essi perdono il mantenimento. In ogni caso, dopo i 30/35 anni, cessa ogni obbligo di mantenimento in capo ai genitori.
Come comportarsi se uno dei due automobilisti prima si dichiara collaborativo e si offre di risarcire il danno ma poi scappa e non si fa più vivo?
Che fare se l’altro automobilista non risponde? Come ottenere il risarcimento del danno in questi casi in cui, per fiducia e magari per una certa dose di ingenuità, non si è firmato un Cid? A quale assicurazione rivolgersi e come fare per dimostrare le proprie ragioni? Ecco alcuni chiarimenti pratici.
Il Cid è necessario?
Per ottenere il risarcimento conseguente a un incidente stradale non è necessario firmare il Cid. Il modulo di constatazione amichevole serve solo ad accelerare i tempi di liquidazione del risarcimento, normalmente di 60 giorni per i danni al veicolo e di 90 giorni per quelli ai conducenti e passeggeri, che diventano quindi rispettivamente di 45 e 60 giorni.
Il Cid vincola le parti: ragion per cui l’automobilista che lo firma non può poi fornire una versione diversa dei fatti. L’assicurazione tuttavia non è obbligata a dare per certa la versione dei fatti esposta nel Cid (diversamente, sarebbe facile compiere truffe ai suoi danni).
È legittimo escludere l’assicurazione in caso di incidente?
La legge non impone alle parti coinvolte in un incidente di coinvolgere le rispettive assicurazioni. Queste ben possono accordarsi tra loro per la quantificazione e successiva liquidazione del sinistro. Devono chiaramente trovare un’intesa, in assenza della quale ciascuna può rivolgersi alla propria compagnia per esporre le proprie ragioni.
È anche vero che, se il Codice civile impone di effettuare la denuncia di sinistro entro 3 giorni dall’incidente (salvo che la polizza indichi un termine superiore), è altresì principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui un’eventuale tardiva denuncia non pregiudica la possibilità di ottenere il risarcimento a meno che ciò non sia avvenuto dolosamente e l’assicurazione dimostri di averne subìto un danno.
A chi presentare la richiesta di risarcimento del danno?
La richiesta di risarcimento del danno va presentata presso la propria assicurazione che incaricherà un perito al fine di verificare i danni alle auto e un altro (un medico legale) per accertare le eventuali lesioni fisiche.
Che fare se l’altro automobilista non si fa più vivo?
È bene precisare che il comportamento dell’automobilista che, dopo l’incidente non si ferma, costituisce un illecito: amministrativo se non ci sono feriti (punito con una sanzione da 296 a 1.184 euro) e penale invece se ci sono feriti (in tal caso, scatta il reato di fuga, punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni, nonché la sospensione della patente di guida da 1 a 3 anni).
Alla fuga è equiparato il comportamento di chi si ferma solo pochi minuti e poi va via senza attendere la polizia.
Diversa è l’ipotesi dell’automobilista che, si ferma, offre la propria disponibilità alla liquidazione del risarcimento “in proprio” (senza cioè coinvolgere le assicurazioni), pur senza la compilazione del Cid. In tale ipotesi, se questi non si fa più vivo e non risponde al telefono, come ci si deve comportare? È sufficiente recarsi alla propria assicurazione, come anticipato anche dopo i 3 giorni necessari alla denuncia di sinistro, e presentare la richiesta di risarcimento, esponendo tutto il fatto e la descrizione dell’incidente.
L’assicurazione effettuerà ugualmente le proprie indagini e poi liquiderà il risarcimento al proprio assicurato. Di tanto sarà informata l’assicurazione della controparte che, nel caso in cui riconosca la responsabilità del proprio assicurato di almeno il 51%, gli aumenterà la classe di merito “bonus/malus” e quindi il premio della polizza.
Dunque, è bene sapere che, anche in caso di mancata collaborazione da parte dell’altro automobilista, si può autonomamente procedere con la richiesta di risarcimento e ottenere l’indennizzo dovuto.
Che fare se non si hanno prove dell’incidente stradale?
L’assenza di testimoni per dimostrare le proprie ragioni non è ostativa all’ottenimento di un risarcimento. Le responsabilità possono essere ricostruite ex post anche attraverso le cosiddette presunzioni, ossia indizi. Si tratta, ad esempio, della documentazione fotografica, della segnaletica, delle perizie che verificano i punti di contatto tra le auto e l’entità dei danni (dai quali si possono desumere una serie di elementi come la velocità o il mancato rispetto della precedenza).
Sinistro stradale: come farsi risarcire. La denuncia di sinistro, le prove e i documenti, la richiesta di risarcimento, l’indagine e la liquidazione del danno.
A stabilire cosa si deve fare in caso di incidente sono una serie di leggi e norme sparse. In parte sono contenute nel codice delle assicurazioni, in altra parte nel codice penale ed in quello civile. Ragion per cui, non essendoci un testo unico, sarà bene spiegare, in modo pratico e schematico, cosa fare dopo un incidente, chi chiamare in caso di feriti, come comportarsi per avere il risarcimento dall’assicurazione, come provare di avere ragione e altre questioni pratiche che normalmente si pongono subito dopo un sinistro stradale e nel corso della successiva pratica di infortunistica stradale.
Per sapere cosa si deve fare in caso di incidente dobbiamo partire proprio dall’immediatezza del fatto ossia la scena dello scontro.
Come comportarsi subito dopo un incidente stradale?
Il comportamento da tenere subito dopo un incidente e le responsabilità in caso di fuga variano a seconda che vi siano o meno feriti.
In entrambi i casi, sarà necessario fermarsi per fornire all’altro conducente i propri dati personali, il numero della patente e gli estremi della propria polizza Rc-auto. Sarà opportuno effettuare delle fotografie alla strada e alle auto, avendo cura di inquadrare la scena dell’incidente sotto più prospettive e focalizzando l’obiettivo della macchina fotografica (o dello smartphone) sui punti di contatto e sui danni riportati dalle rispettive auto.
Si dovrà poi chiamare la polizia municipale o la polizia stradale. Il loro intervento è doveroso in presenza di feriti; è meno probabile quando l’incidente è minimo e non vi sono danni a persone.
In assenza di polizia, i conducenti dovranno preferibilmente redigere il Cid, anche detto «modulo di constatazione amichevole di sinistro». Non si tratta però di un obbligo giuridico, ma di un adempimento che serve ad accelerare le pratiche del sinistro. Difatti, in assenza di Cid, l’assicurazione ha 60 giorni per presentare l’offerta di risarcimento per il danno alle auto e 90 giorni per il danno alle persone; invece, con il Cid, i giorni sono rispettivamente 45 e 60.
Se gli automobilisti non hanno con sé il Cid possono ben compilare un foglio in modo autonomo, indicando le rispettive generalità, polizze e numero patente, la descrizione del sinistro, del luogo e dell’orario in cui questo si è verificato, l’indicazione della responsabilità, dei danni riportati a persone e/o a cose, la data e la firma.
Il Cid o il documento stilato dalle parti dovrà poi essere presentato all’assicurazione per effettuare la cosiddetta «denuncia di sinistro» (di cui parleremo a breve).
Quanto alle auto che intralciano la strada, laddove si tratti di un sinistro che non ha procurato danni gravi a cose e/o a persone, sarà bene sgombrare la carreggiata. Diversamente, le auto vanno lasciate dove si trovano sino all’intervento della polizia, avendo cura di posizionare il triangolo rosso a catarifrangenti ai margini della carreggiata, a non meno di 50 metri dal luogo del sinistro (la distanza sarà maggiore in caso di strade ove la velocità di percorrenza può essere elevata).
Cosa succede se una persona non si ferma dopo un incidente?
L’obbligo di fermarsi per scambiare i propri dati comporta una responsabilità: amministrativa in caso di incidente senza feriti, penale se invece ci sono feriti.
Nel caso di incidente senza feriti, chi scappa è soggetto a una sanzione amministrativa da 296 a 1.184 euro. Se però il danno procurato all’altra auto è grave può scattare anche l’obbligo di sottoporre a revisione l’auto e la sospensione della patente da 15 giorni a due mesi.
Nel caso di incidente con feriti, chi scappa può essere denunciato per il reato di fuga e rischia la reclusione da 6 mesi a 3 anni, nonché la sospensione della patente di guida da 1 a 3 anni.
L’illecito penale scatta anche nei confronti di chi, ritenendo che l’altro conducente non si sia fatto nulla, si allontana col consenso di quest’ultimo. L’obbligo di fermarsi, infatti, è rivolto a consentire l’arrivo delle autorità per la redazione del verbale.
Se le ferite sono gravi, c’è anche l’obbligo di prestare soccorso che non richiede certo di improvvisarsi medici ed eseguire manovre, ma di chiamare le autorità preposte come, ad esempio, l’ambulanza, il 118, la polizia, i carabinieri, ecc. In base al codice della strada, chiunque non ottempera all’obbligo di prestare l’assistenza occorrente alle persone ferite, è responsabile del reato di omissione di soccorso ed è punito con la reclusione da un anno a tre anni e con la sospensione della patente di guida per un periodo non inferiore ad un anno e sei mesi e non superiore a cinque anni.
Come ottenere il risarcimento se l’altra auto scappa?
Se l’altra auto scappa è possibile fare domanda di risarcimento al Fondo di Garanzia Vittime della Strada gestito da Consap. Per accedere al risarcimento del Fondo non è necessario sporgere la denuncia contro l’altro conducente, ma bisogna essere in grado di dimostrare che, alla luce della dinamica e dell’entità del sinistro, del luogo e delle circostanze concrete, è stato impossibile prendere il numero della targa dell’altro conducente.
Il Fondo risarcisce tutti i danni alle persone coinvolte. Invece, i danni alle auto vengono risarciti dal Fondo solo a patto che vi siano stati danni gravi alla persona e con una franchigia di 500,00 euro.
Una volta scaricato il modulo per la richiesta di risarcimento dal relativo sito, il Fondo di Garanzia nomina un’assicurazione sul luogo di residenza del danneggiato per la verifica dei danni e la materiale liquidazione del danno. Tutta la procedura è descritta sul sito di Consap, Fondo di Garanzia Vittime della Strada.
La denuncia di sinistro
Ciascun automobilista è chiamato a comunicare il sinistro, alla propria assicurazione, entro tre giorni da quando questo si è verificato, salvo un maggior termine indicato nella propria polizza. Tuttavia, il mancato rispetto di tale termine non determina la perdita del diritto al risarcimento a meno che l’omissione sia dolosa e l’assicurazione dimostri che, da essa, ne ha subìto un danno.
Per la denuncia di sinistro sarà bene presentarsi personalmente alla propria compagnia e depositare il Cid laddove redatto oppure una propria dichiarazione in cui si fornisce la propria versione dello scontro.
Nella denuncia di sinistro bisognerà indicare tutte le prove a proprio favore, compresi i nomi di eventuali passeggeri e/o testimoni.
La denuncia di sinistro deve contenere anche la richiesta di risarcimento se il conducente ritiene di essere nel giusto. Dunque, il conducente danneggiato viene risarcito dalla propria assicurazione e non da quella del responsabile: una procedura questa studiata per accelerare la liquidazione dell’indennizzo.
Il risarcimento del danno a passeggeri
I passeggeri presenti nelle due auto saranno sempre risarciti, indipendentemente dall’eventuale responsabilità del conducente nel cui veicolo si trovavano. A tal fine dovranno fare domanda all’assicurazione di quest’ultimo dimostrando i danni patiti e di essere stati a bordo del veicolo al momento dello scontro.
L’indagine dell’assicurazione e le perizie
Una volta presentata la denuncia di sinistro bisognerà attendere che l’assicurazione nomini un proprio fiduciario che valuti i danni alle auto e attesti eventuali responsabilità.
Il Cid non vincola l’assicurazione che ben potrebbe discostarsi dal suo contenuto (diversamente si incentiverebbero frodi assicurative). Esso tuttavia vincola le parti: ragion per cui l’automobilista che lo firma non può poi fornire una versione diversa dei fatti.
Il perito si mette in contatto con le parti per fissare una data in cui verificare i veicoli danneggiati. Le parti possono presentarsi anche con un proprio meccanico di fiducia al fine di controllare le operazioni.
Se ci sono stati feriti, l’assicurazione nomina un medico legale al quale bisognerà presentare tutta la documentazione attestante i postumi. A tal fine, sarà bene che il danneggiato conservi tutti i certificati medici, da quelli del pronto soccorso a quelli del medico curante. Il risarcimento verrà riconosciuto solo una volta che il proprio medico abbia emesso il certificato di avvenuta guarigione che quindi bisognerà chiedergli espressamente non appena si è completamente guariti.
L’assicurazione però è tenuta a risarcire anche eventuali conseguenze alla salute manifestatesi dopo il risarcimento che, in precedenza, non potevano essere previste.
Ai fini della richiesta di risarcimento bisognerà consegnare all’assicurazione tutti i documenti, fatture, scontrini e preventivi che attestino i danni, sia al mezzo che alla persona, affinché la compagnia formuli l’offerta di risarcimento.
L’aumento della classe di merito
L’assicurazione, a seguito delle verifiche sulle responsabilità del sinistro, applica l’aumento di due classi di merito al conducente a cui sia riconosciuto più del 50% di responsabilità (quindi anche in caso di concorso di colpa).
L’offerta di risarcimento da parte dell’assicurazione
Se l’assicurazione ritiene che il proprio cliente ha ragione, gli presenta un’offerta di risarcimento entro 60 giorni per i danni all’auto ed entro 90 giorni per i danni alla persona (che diventano rispettivamente 45 o 60 giorni se c’è il Cid).
I termini si sospendono durante l’esecuzione delle perizie.
Se il danneggiato ritiene di accettare l’offerta, firmerà l’accettazione e fornirà il proprio indirizzo per l’invio dell’assegno o l’Iban per il bonifico. Diversamente questi può rifiutare l’offerta e avviare una causa, per il tramite del proprio avvocato, per ottenere dal giudice il risarcimento effettivo.
L’assicurazione è comunque tenuta a liquidare un risarcimento non superiore al valore dell’auto al momento del sinistro, anche se il danno è maggiore.
Quanto invece ai danni fisici, questi si comporranno del lucro cessante (derivante dall’impossibilità di lavorare), il danno emergente (costituito dalla spese mediche), il danno morale (la sofferenza patita per lo scontro), il danno biologico (la diminuzione delle funzioni fisiche, sia in caso di invalidità temporanea che definitiva), il danno da “fermo tecnico” (per l’impossibilità di usare l’auto fino a quando questa rimane in officina).
Tutti i danni devono essere dimostrati dal danneggiato.
Per i danni fisici inferiori al 9%, è necessario esibire una indagine strumentale (ad esempio i “raggi X”, l’ecografia, la risonanza magnetica, ecc.) oppure un certificato medico che attesti la lesione.
I fatti provati con email e sms sono validi?
È da anni ormai che, nelle aule di giustizia, si discute se alle chat, agli sms, alle email e agli screenshot possa essere attribuito valore di prova in un processo civile o penale. Se per quest’ultimo però i giudici si sono subito dichiarati favorevoli, nel civile c’è stata qualche riluttanza. E ciò perché l’articolo 2712 del Codice civile stabilisce che le “riproduzioni meccaniche” – tra cui vengono appunto ricondotti sms, chat ed email – hanno valore solo se non sono disconosciute, in processo, dalla controparte.
Una recente sentenza del tribunale di Savona aggiunge un importante tassello a questa diatriba stabilendo che i fatti provati con email e sms sono validi. Cerchiamo di fare il punto della situazione.
Un sms o una chat possono essere prova?
Un illecito può essere provato anche attraverso le parole contenute in una chat, in un sms o in una email che, a tal fine, potrebbero entrare in un processo tramite lo screenshot.
L’articolo 2712 del Codice civile subordina però tale possibilità al mancato disconoscimento dell’autenticità di tale riproduzione da parte dell’avversario. In pratica, se colui contro il quale tale documento viene prodotto non si oppone, lo stesso acquista il valore di prova.
Ma la Cassazione ha anche detto che non basta una generica opposizione: va anche fornita una valida motivazione delle ragioni per cui lo screenshot – che tutti sappiamo poter essere modificato anche con un normale programma di photo editing – non corrisponde all’originale della chat.
Ecco quindi che, per dare valore di prova a quanto affermato in una discussione telematica, è necessario che questa sia prodotta in un processo e che la controparte non fornisca validi elementi di contestazione.
Che succede se viene contestata l’email o l’sms?
Il problema fondamentale delle email e degli sms è che non garantiscono la certezza del ricevimento da parte del destinatario, come invece succede con una raccomandata o una pec. Quindi, in assenza di un’attestazione che abbia pieno valore di prova circa il loro contenuto e la conoscenza acquisita dalla controparte, queste non possono fornire una dimostrazione certa dei fatti rappresentati.
Senonché la prova può essere acquisita anche in altro modo: ad esempio dal comportamento del ricevente che potrebbe aver risposto al messaggio o averlo inoltrato a terzi. Si pensi al licenziamento intimato con una email che venga prontamente contestato nel termine di 60 giorni, comportamento questo che attesta inequivocabilmente il fatto che il lavoratore abbia letto il messaggio, potendosi così difendere.
Il giudice può dare valore di prova a email, chat ed sms?
Il tribunale di Savona non fa che confermare quanto abbiamo appena detto: è vero che le chat, gli sms e le email non garantiscono certezza né in merito al loro contenuto, né con riferimento al ricevimento degli stessi; ed è anche vero che, se contestate dall’avversario, non possono avere il valore di prova. Tuttavia l’eventuale disconoscimento di tale conformità non impedisce al giudice di accertare la rispondenza all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, compresi gli indizi (ossia le “presunzioni”).
Il che significa che, anche opponendosi alla produzione di un sms o di una chat, il tribunale potrebbe riconoscere ad essi valore di prova se confermati dagli altri elementi presenti in giudizio come ad esempio lo stesso comportamento tenuto dal destinatario.
Dunque, ove la contestazione (con questo specifico contenuto) vi sia stata, la riproduzione, pur perdendo il suo pieno valore probatorio, conserva tuttavia il minor valore di un semplice elemento di prova, che può essere integrato da ulteriori elementi.
Il certificato dei carichi pendenti, previsto dagli artt. 6-8 del TU Casellario giudiziale, è un documento che contiene i procedimenti penali in corso a carico di un soggetto e viene rilasciato su richiesta
Cos'è il certificato dei carichi pendenti
Previsto e disciplinato dagli articoli 6-8 del Testo Unico casellario giudiziale D.P.R. n. 313/2002, il certificato dei carichi pendenti è un documento da cui risultano i procedimenti penali in corso (anche presso le procure distrettuali antimafia) a carico di un determinato soggetto, compresi eventuali giudizi di impugnazione.
Indica quindi la presenza o meno di carichi pendenti, a differenza del certificato del casellario giudiziale che indica la presenza di provvedimenti di condanna a carico del soggetto.
Il certificato ha una validità di sei mesi dalla data di rilascio.
Le iscrizioni nel casellario sono eliminate:
- al compimento dell'ottantesimo anno di età o per morte della persona alla quale si riferiscono;
- alla cessazione della qualità di imputato ex art. 60, comma 2, c.p.p.
Cosa si intende per carico pendente
Per fare chiarezza, il carico pendente è una definizione di natura penalistica che descrive lo status del soggetto imputato (non più indagato quindi nelle indagini preliminari) che ha a suo carico dei procedimenti penali pendenti, ossia ancora in corso.
Cosa contiene il certificato dei carichi pendenti
Il certificato dei carichi pendenti, si limita ad indicare l'esistenza (o meno) dei carichi pendenti che risultano a carico di un determinato soggetto e per questo si distingue, quindi, dal certificato del casellario giudiziale, che attesta invece la presenza di provvedimenti di condanna a carico del soggetto.
Le iscrizioni riportate nel certificato dei carichi pendenti si riferiscono soltanto ai processi in corso (e ai relativi giudizi di impugnazione) innanzi al tribunale a cui accede la specifica procura dove il certificato è stato richiesto.
Nel certificato però non risultano alcune iscrizioni, espressamente previste dall'art. 27 del T.U. del Casellario (ad esempio, le sentenze di condanna per le quali è stato concesso il beneficio della non menzione; i provvedimenti emessi dal Giudice di pace; le condanne per contravvenzioni punibili con l'ammenda; ecc.).
Chi può richiederlo
Il certificato può essere richiesto:
- dall'interessato o da soggetto da lui delegato;
- dalle PP.AA. o dai gestori di pubblici servizi, quando è necessario per l'espletamento delle loro funzioni;
- dall'autorità giudiziaria penale, che provvede direttamente alla sua acquisizione;
- dal difensore della persona offesa dal reato e del testimone.
In alcuni casi, il soggetto interessato non può richiedere personalmente il rilascio del certificato:
- per i minori di anni 16, la domanda deve essere presentata dal soggetto che ne esercita la potestà genitoriale;
- per gli interdetti, la domanda deve essere presentata dal tutore, che deve esibire il decreto di nomina;
- per la persona detenuta (o che è stata inserita in una comunità terapeutica), la richiesta può essere inoltrata per posta o a mezzo di un delegato, o, se sprovvista di documenti, con richiesta vistata dal direttore o dall'ufficio matricolare del carcere;
- per le richieste dall'estero, la domanda può essere presentata dall'interessato per posta o tramite un delegato.
Dove si richiede
Il certificato dei carichi pendenti, in attesa che venga attivato il casellario nazionale dei carichi pendenti, può essere richiesto a qualsiasi procura della Repubblica, indipendentemente dal luogo di nascita o residenza dell'interessato. Il certificato infatti, anche se in genere viene richiesto alla Procura che corrisponde al luogo di residenza dell'interessato, può essere rilasciato anche da una Procura diversa.
In questo caso dal certificato emergeranno i procedimenti pendenti presso il relativo tribunale.
Se infatti l'interessato vuole conoscere le pendenze in corso presso più uffici giudiziari, non deve fare altro che presentare la richiesta del certificato a tutte le procure della Repubblica interessate (ciò fino a quando non verrà attivato il casellario nazionale dei carichi pendenti).
Per i minori il certificato è rilasciato dalla procura presso il tribunale per i minorenni.
Come si richiede il certificato dei carichi pendenti
La richiesta può essere presentata direttamente dall'interessato (o dal suo delegato) mediante l'apposito modello (disponibile sul sito del ministero della giustizia e qui sotto in pdf) unitamente al modello di delega), muniti di un valido documento di riconoscimento ovvero per posta.
I cittadini extracomunitari che non hanno il passaporto devono allegare alla domanda la copia del permesso di soggiorno.
L'interessato non è tenuto a motivare la richiesta del certificato dei carichi pendenti, salvo precisare l'uso cui è destinato se ne richiede il rilascio gratuito.
Certificato carichi pendenti online
Il sito del ministero della Giustizia, nella pagina dedicata all'interno della sezione "servizi al cittadino" offre la possibilità di prenotare online il certificato dei carichi pendenti presso qualsiasi ufficio locale del casellario.
Per effettuare la prenotazione è necessario scegliere l'ufficio presso cui si andrà a ritirare il certificato, compilare, quindi inoltrare la richiesta di prenotazione on-line e stampare la ricevuta da presentare allo sportello dell'ufficio locale scelto.
Il certificato, una volta pronto, sarà consegnato dopo aver pagato l'imposta di bollo e i relativi diritti di certificato, che come vedremo, possono essere con o senza urgenza.
Fino a quando la richiesta non è presa in carico dall'ufficio, è possibile cancellare la prenotazione.
Quanto costa il certificato carichi pendenti
Ogni certificato dei carichi pendenti costa nel complesso 19,92, di cui 16 euro per la marca da bollo (una ogni due pagine) e 3,92 euro per i diritti di certificato. Inoltre, se il certificato è richiesto con rilascio nella stessa giornata devono essere pagati altri 3, 92 euro per i diritti di urgenza.
Certificato carichi pendenti gratis
Solo in alcuni casi il certificato dei carichi pendenti è gratuito, ossia quando lo stesso deve essere prodotto:
- nelle controversie di lavoro, previdenza ed assistenza obbligatoria (art. 10 L. 533/73);
- nelle procedure di adozione, affidamento di minori e affiliazione (art. 82 L.184/83);
- in un procedimento nel quale la persona è ammessa a beneficiare del gratuito patrocinio (art. 18 D.P.R. 115/2002) o deve essere unito alla domanda di riparazione dell'errore giudiziario (art. 176 disp. att. c.p.p.).
Nei casi elencati nel d.p.r. n. 642/1972 (tabella allegato B), invece, il rilascio del certificato è esente soltanto da bollo.
Nell'ipotesi in cui si abbia diritto all'esenzione dal pagamento (sia del solo bollo che dei diritti di certificato), l'interessato deve produrre idonea documentazione che provi tale diritto.
Certificato carichi pendenti richiesto dal datore di lavoro
Un tema molto delicato che ha a che fare con il certificato dei carichi pendenti è quello che riguarda il mondo del lavoro.
Questo perché l'art. 8 dello Statuto dei Lavoratori dispone che "E' fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonchè su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore."
Sulla questione occorre segnalare che la Cassazione ha precisato che "non è possibile attribuire all'espressione 'certificato penale' (che trova precisa corrispondenza nel certificato di cui agli artt. 23 e 25 del T.U. d.P.R.14/11/ 2002, n. 313) un significato che ne consenta l'estensione anche all'ipotesi del certificato dei carichi pendenti. In ogni caso, la disposizione collettiva che condiziona (sospensivamente) l'assunzione alla presenza di determinati requisiti debitamente documentati, non può formare oggetto di interpretazione estensiva perché ciò si risolverebbe nell'introduzione di un limite ulteriore rispetto a quello che le parti contraenti hanno inteso prevedere. La richiesta del certificato penale configura, infatti, un limite rispetto alla previsione di cui all'art. 8 dello Statuto dei Lavoratori (...) Tale limite, in assenza di espressa previsione contrattuale, non può essere dilatato per via interpretativa fino a ricomprendere informazioni relative a procedimenti penali in corso (oggetto del certificato previsto dall'art. 27 del T.U. sopra citato), in quanto non coerente con il principio costituzionale della presunzione d'innocenza" (cfr. Cass. n. 29423/2018).
In pratica, al momento dell'assunzione, se il contratto collettivo richiede la sola produzione del certificato penale, il datore non può chiedere anche la produzione del certificato dei carichi pendenti.
Certificato dei carichi pendenti Agenzia Entrate
Esiste infine anche un certificato dei carichi pendenti che si può chiedere all'Agenzia delle Entrate e che nello specifico si chiama Certificato unico debiti tributari ex art. 364 D.Lgs. n. 14/2019, da cui risultano i debiti tributari che gravano in capo a un contribuente in un determinato momento.
Esso riporta le imposte in sostanza che sono state contestate al contribuente e che lo stesso non ha pagato.
Questo certificato è utilizzabile nelle procedure disciplinate dal decreto legislativo n. 14/2019, che contiene il Codice della crisi e dell'insolvenza.
Modulo di richiesta Agenzia delle Entrate e istruzioni
Per richiederlo occorre inoltrare il modello, contenente anche le istruzioni di compilazione, all'ufficio dell'Agenzia competente a mezzo raccomandata, a mezzo pec, o consegnandolo a mano. Il rilascio del certificato avviene entro il termine di 30 giorni dalla richiesta.
Istanza ex art. 335 c.p.p.: cos’è e a cosa serve? Cosa c’è scritto nel certificato dei carichi pendenti? Cosa si può fare quando si è indagati?
In questo preciso istante potresti essere indagato dalla Procura e non saperne nulla. È possibile? Certo: la legge stabilisce che le attività investigative dell’autorità giudiziaria sono coperte dal massimo riserbo. Soltanto se bisogna compiere atti ai quali deve necessariamente assisterti un avvocato, verrai avvisato delle indagini in corso. Insomma: se qualcuno ti denuncia, non è tuo diritto esserne informato. Giunto a questo punto, ti starai chiedendo: come sapere se sono indagato? Se sono indagato risulta nei carichi pendenti?
Per sapere se sei sotto indagine puoi fare una specifica istanza alla Procura della Repubblica; questa richiesta, però, non va confusa con i carichi pendenti, che sono un’altra cosa. Ma non voglio anticiparti troppo. Se l’argomento ti interessa e vuoi saperne di più, prosegui con la lettura, perché risponderemo insieme alla domanda posta nel titolo: se sono indagato risulta nei carichi pendenti? Vediamo.
La polizia deve avvisarmi se sono stato denunciato?
Come detto in apertura, nessuno deve avvertirti se sei stato denunciato: ciò accade perché le indagini delle autorità sono segrete.
È però possibile che ti siano notificati alcuni atti che rappresentano un importante campanello di allarme: uno di questi è l’invito ad eleggere domicilio per le future comunicazioni.
Quando invece la Procura deve compiere qualche atto investigativo per cui la legge prescrive la presenza necessaria dell’avvocato (l’interrogatorio, ad esempio), allora ti verrà notificato l’avviso di garanzia, in cui potrai leggere anche per quale reato sei indagato.
Come sapere se sono indagato?
Se non hai ricevuto alcun tipo di comunicazione da parte della polizia, per sapere se sei indagato devi fare un’istanza alla Procura della Repubblica, chiedendo espressamente di sapere se il tuo nominativo è iscritto all’interno del registro delle notizie di reato. Si tratta della ben nota “istanza ex art. 335 c.p.p.”, che puoi presentare anche personalmente senza l’ausilio di un avvocato. A seguito di questa richiesta, la Procura ti dirà se ci sono iscrizioni suscettibili di comunicazione, cioè se sei indagato o meno.
Carichi pendenti: risulta se sono indagato?
Eventuali indagini in corso non risultano dai cosiddetti “carichi pendenti”. Questo certificato, infatti, contiene solamente i processi per cui sei attualmente imputato, non anche le semplici indagini.
In pratica, il certificato dei carichi pendenti ti dice in quali giudizi sei imputato, ma nulla dice in merito a eventuali investigazioni in corso.
Nei carichi pendenti non sono dunque riportati i procedimenti definiti con sentenza irrevocabile, né quelli ancora nella fase delle indagini preliminari, ma solo i procedimenti per i quali è stata esercitata l’azione penale e non è intervenuta sentenza definitiva.
Per questa ragione, l’unico modo per sapere se sei indagato è di fare istanza ex art. 335 c.p.p. alla Procura della Repubblica.
Cosa posso fare se sono indagato?
Se a seguito di istanza in Procura o di avviso di garanzia scopri di essere indagato, non farti prendere dal panico: la prima cosa che devi fare è consultare un avvocato, il quale ti suggerirà quali sono i passi utili da compiere.
Devi sapere, però, che le indagini, fino a che non saranno concluse, sono coperte dal più assoluto riserbo: pertanto, non potrai chiedere di visionare il fascicolo del pubblico ministero, né tantomeno potrà farlo un avvocato per te.
A questo punto, visto che non puoi vedere i documenti che ci sono in Procura, probabilmente ti starai chiedendo: «A cosa serve sapere che sono indagato?». Sapere di essere sotto la lente degli inquirenti ti consente non solo di nominare un avvocato per consigliarti con lui, ma anche di compiere alcune attività importanti, come:
- depositare memorie difensive;
- chiedere di incontrare il pubblico ministero che segue le indagini per poterci parlare in maniera informale;
- incaricare il proprio avvocato di compiere investigazioni difensive, consistenti ad esempio nel raccogliere dichiarazioni di persone che hanno assistito ai fatti;
- riconciliarsi con la presunta persona offesa, magari offrendo anche un risarcimento, ottenendo così la remissione della querela e la conseguente estinzione del procedimento (se il reato non è procedibile d’ufficio);
- eleggere domicilio presso il proprio difensore, cosicché ogni comunicazione non giungerà più a casa tua. Questo ti consentirà di mantenere un certo riserbo con i vicini e i tuoi stessi familiari (nel caso in cui tu non voglia far sapere nulla), oltre che consentirti di spostarti senza temere che qualche notifica vada perduta.
Videosorveglianza, solo l’8% delle telecamere sono segnalate da un regolare cartello, ma a chi le installa la privacy interessa poco o niente.
Le città italiane sono sempre più digitali e invase dalle telecamere, ma per evitare di andare verso una società del controllo indiscriminato e non incorrere nelle pesanti sanzioni che sono previste dal GDPR è necessario cambiare urgentemente traiettoria rispetto agli scenari attuali.
Da un lato, è promettente il comunicato diramato il 13 aprile 2022 dal Ministero dell’Interno, che rende nota la prossima erogazione di 27 milioni di euro a favore di 416 comuni che sono stati ammessi al finanziamento ministeriale per il potenziamento dei propri impianti di videosorveglianza, anche se adesso i rispettivi uffici tecnici e gli organi di polizia locale che hanno ottenuto il via libera per accedere ai contributi economici dovranno affrettarsi a preparare i relativi progetti tecnici esecutivi in linea con tutte le prescrizioni delle leggi vigenti.
Tra le normative da rispettare, i comuni dovranno prestare particolare attenzione a quelle riguardanti la tutela della privacy e la protezione dei dati personali, e non si tratta di un compito di poco conto che può essere considerato un mero adempimento burocratico da gestire sbrigativamente, non solo per la complessità delle stesse norme, ma soprattutto perché in Italia il 71% delle sanzioni per violazioni del GDPR sono state irrogate proprio nei confronti di enti pubblici, i quali si trovano quindi a camminare su un terreno che per loro è tipicamente scivoloso.
E se nel secondo semestre del 2021 il Garante aveva già puntato la lente sulla conformità dei trattamenti di dati personali effettuati attraverso le telecamere, non è certamente un caso che per il secondo semestre consecutivo, anche nel piano delle attività ispettive della prima metà del 2022 l’Authority abbia di nuovo inserito il controllo dei sistemi di videosorveglianza, denotando così le proprie intenzioni di continuare a monitorare attentamente quello che è ormai uno degli ambiti più invasivi per la privacy dei cittadini.
A destare particolare preoccupazione, sono adesso i risultati che emergono da uno studio condotto da Federprivacy in collaborazione con Ethos Academy con l’obiettivo di fornire un quadro realistico sul rispetto della privacy nel mondo della videosorveglianza, esaminandone gli scenari da varie angolazioni con la mira di comprendere le tendenze e le percezioni di addetti ai lavori e cittadini, individuare i gap che ostacolano la conformità alla normativa in materia di protezione dei dati personali, ed essere così in grado di individuare più facilmente i fabbisogni per tracciare la corretta traiettoria verso un’espansione coerente dei sistemi di videosorveglianza, con particolare riguardo allo sviluppo sostenibile delle smart city.
Nello studio “Videosorveglianza & Privacy tra cittadino, professionisti e imprese”, articolato in diverse fasi e indirizzato a tre distinte categorie di soggetti presi in esame, è stato effettuato un sondaggio su un campione di circa 2.000 cittadini chiedendo loro cosa osservano quando entrano in un esercizio pubblico dotato di un impianto di videosorveglianza: solo nell’8% dei casi risulta essere esposto un regolare cartello di informativa minima che avverte in modo chiaro e trasparente la presenza di telecamere con l’indicazione dei corretti riferimenti normativi e delle informazioni complete che devono essere fornite all’interessato.
Per il 38% delle telecamere non c’è invece nessun cartello che ne mette a conoscenza il cittadino, a indicare che chi le ha installate non si è neanche posto il problema di dover rispettare una normativa in materia di privacy. E anche se nel restante 54% dei casi l’interessato prende atto che è esposto un cartello, tuttavia questo risulta poi del tutto inadeguato a causa di riferimenti normativi obsoleti o sbagliati o privo delle informazioni che vi dovrebbero essere riportate.
Nonostante le Linee guida n. 3/2019 elaborate dal Comitato Europeo per la protezione dei dati (Edpb) abbiano provveduto da più di due anni un nuovo modello di cartello per segnalare la presenza di un sistema di videosorveglianza in conformità al GDPR, sono infatti ancora diffusissimi vecchi cartelli che fanno riferimento all’abrogato art.13 del Dlgs 196/2003, che spesso non risultano neppure compilati con le indicazioni del titolare del trattamento e delle finalità delle telecamere lasciate negligentemente in bianco.
Sul fronte delle imprese, l’Osservatorio di Federprivacy ha invece effettuato una approfondita disamina di tutte le oltre mille sanzioni comminate dall’introduzione del Regolamento europeo, e ben 161 di queste (15,2%) sono direttamente riferite a violazioni commesse attraverso telecamere e impianti di videosorveglianza, per un ammontare complessivo di circa 3,9 milioni di euro che imprese private e pubbliche amministrazioni hanno dovuto sborsare a causa della loro noncuranza delle regole sulla tutela della privacy. Rileva il fatto che ben 130 di tali sanzioni (pari all’80% del totale) siano state elevate negli ultimi due anni, a significare un aumento esponenziale che si registra per le violazioni derivanti dall’uso illecito di telecamere.
Molti cartelli di informativa sulla videosorveglianza riportano ancora i riferimenti normativi della vecchia Legge 675/1996
Nel panorama europeo, lo studio ha inoltre evidenziato che in Spagna viene comminato il maggior numero di sanzioni in materia di videosorveglianza. Dall’entrata in vigore del GDPR, l’autorità per la protezione dei dati spagnola (AEPD) ha infatti adottato ben 82 provvedimenti per questo tipo di infrazioni. E se autorità di paesi come Italia, Austria, Germania, Romania, e Lussemburgo fanno la loro parte, vi sono però diversi altri garanti che evidentemente al momento si concentrano su altre tipologie di violazioni, oppure in quelle nazioni il fenomeno dell’inosservanza delle regole sulla privacy afferenti i sistemi di videosorveglianza è più contenuto rispetto alla nostra realtà.
Se imprese e pubbliche amministrazioni risultano spesso non conformi alla normativa in materia di protezione dei dati personali quando si dotano di sistemi di videosorveglianza, a quanto pare le principali cause sono però da rinvenire nelle mani a cui si affidano. Infatti, nella parte dello studio rivolta agli installatori e agli operatori della sicurezza fisica, sono emerse notevoli carenze e mancanza di consapevolezza che spiegano in buona parte i pessimi risultati di cui la maggior parte dei cittadini intervistati si rende conto.
Su un campione di 1.127 operatori tra progettisti e installatori che hanno accettato di partecipare al sondaggio dopo aver partecipato a una sessione formativa, il 23% di questi reputano di essere soggetti a un rischio basso in materia di privacy e videosorveglianza, e il 31% pensa che vi sia un rischio medio, mentre sono solo meno della metà (46%) a rendersi conto di avere a che fare con temi complessi che comportano rischi elevati, denotando ancora scarsa sensibilità alle problematiche della protezione dei dati personali, specialmente nelle aree geografiche del sud Italia, dove è addirittura risultato che solo il 3% delle aziende di appartenenza dei professionisti intervistati sono dotate di un Data Protection Officer o di un’altra figura dedicata alle tematiche della privacy, e dalla stessa area geografica sono stati solo il 15% dei professionisti ad avvertire la necessità di ulteriori approfondimenti in un corso di formazione strutturato.
Meno della metà (46%) di progettisti e installatori di sistemi di videosorveglianza si pongono in concreto problemi sui rischi in materia di privacy
Altro elemento che denota superficialità degli addetti ai lavori della videosorveglianza nell’approccio alla privacy, ha riguardato i temi d’interesse per eventuali approfondimenti, che sono risultati prevalentemente rivolti alla redazione di un cartello di informativa conforme, ai tempi di conservazione delle immagini, e alle misure di sicurezza, mentre praticamente nessuno ha menzionato importanti criticità come la necessità di comprendere come e quando fare una valutazione d’impatto ai sensi dell’art.35 del Regolamento UE, e in quali casi occorra fare una consultazione preventiva presso il Garante ai sensi dell’art.36 per accertare se un trattamento sia lecito o meno. Allo stesso modo, nessuno si è posto problemi legati all’installazione di telecamere intelligenti, al ricorso a tecnologie di intelligenza artificiale, o sui trasferimenti di dati all’estero che, con ormai quasi tutte le telecamere collegate alla rete internet, possono avvenire più o meno consapevolmente da parte del titolare del trattamento, specialmente se chi progetta e installa un impianto di videosorveglianza tralascia di interessarsi al rispetto della privacy.
Il rapporto con i risultati completi dello studio saranno presto resi disponibili da Federprivacy ed Ethos Academy, ma il quadro che si è delineato indica chiaramente che la direzione intrapresa non è quella che può favorire un’espansione sostenibile di telecamere sempre più sofisticate che stanno invadendo sempre più la società moderna. Benché i moderni sistemi di videosorveglianza siano utili, e spesso salvifici, nei loro molteplici utilizzi, occorre però evitare che un diritto fondamentale come quello alla privacy venga sacrificato in nome della sicurezza, e il rischio che ciò accada senza una reale giustificazione è concreto, e non perché rispettare le regole sia troppo gravoso, ma piuttosto perché tra gli stessi addetti ai lavori c’è ancora scarsa consapevolezza di quanto quelle regole siano importanti per il buon funzionamento di qualsiasi società civile.
Una recente sentenza del Tribunale di Genova, relativa a una dipendente licenziata dopo che il datore di lavoro controllando la sua email aveva scoperto che aveva inviato verso terzi dati riservati, permette di approfondire il tema della liceità delle verifiche sull’email di un lavoratore dipendente anche per scopi difensivi.
Si tratta di un tema che rimane sempre di grande attualità e di ampio contrasto tra gli addetti ai lavori rispetto al quale si richiama il Provvedimento generale dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali del 1° marzo 2007 che per quanto datato è ancora valido laddove conforme al Regolamento europeo sulla protezione dei dati n. 2016/679 (GDPR), nonché la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 8, Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Ormai presso tutti gli uffici il collegamento ad Internet è molto diffuso, ma non bisogna dimenticare che l’uso di un computer collegato ad una rete esterna deve essere sempre molto accorto e responsabile innanzitutto per ovvie ragioni di sicurezza.
Non poche, poi, sono le questioni sorte in merito alla legittimità dell’accesso da parte del datore di lavoro o dirigente alla casella di posta elettronica aziendale del dipendente.
Al fine di risolvere tali questioni è opportuno ricordare alcuni importanti concetti:
- l’equiparazione della posta elettronica alla corrispondenza tradizionale la cui libertà e segretezza viene tutelata dall’art. 15 della Costituzione;
- la legittimità del controllo della casella della posta elettronica del proprio dipendente da parte del datore di lavoro alla luce di quanto prescritto dall’attuale disciplina in tema di rapporti di lavoro, compreso lo Statuto dei lavoratori;
- la tutela della privacy alla luce di quanto stabilito dal GDPR.
La problematica non è semplice ed il Garante alla luce dei principi di cui sopra è intervenuto già da tempo con un Provvedimento nel quale ha chiarito che i datori di lavoro pubblici e privati non possono controllare la posta elettronica e la navigazione in Internet dei dipendenti, se non in casi eccezionali.
Spetta al datore di lavoro definire le modalità d’uso di tali strumenti ma tenendo conto dei diritti dei lavoratori e della disciplina in tema di relazioni sindacali.
Ma cosa succede nel caso di messaggi inerenti al rapporto di lavoro? Anche in questo caso opera il divieto di controllo?
L’Autorità prescrive innanzitutto ai datori di lavoro di informare con chiarezza e in modo dettagliato i lavoratori sulle modalità di utilizzo di Internet e della posta elettronica e sulla possibilità che vengano effettuati controlli. Il Garante vieta poi la lettura e la registrazione sistematica delle e-mail così come il monitoraggio sistematico delle pagine web visualizzate dal lavoratore, perché ciò realizzerebbe un controllo a distanza dell’attività lavorativa vietato dallo Statuto dei lavoratori (art. 4).
Viene inoltre indicata tutta una serie di misure tecnologiche e organizzative per prevenire la possibilità, prevista solo in casi limitatissimi, dell’analisi del contenuto della navigazione in Internet e dell’apertura di alcuni messaggi di posta elettronica contenenti dati necessari all’azienda.
Il Provvedimento raccomanda l’adozione da parte delle aziende di un disciplinare interno, definito coinvolgendo anche le rappresentanze sindacali, nel quale siano chiaramente indicate le regole per l’uso di Internet e della posta elettronica.
Il datore di lavoro è inoltre chiamato ad adottare ogni misura in grado di prevenire il rischio di utilizzi impropri, così da ridurre controlli successivi sui lavoratori. Per quanto riguarda Internet è opportuno ad esempio:
- individuare preventivamente i siti considerati correlati o meno con la prestazione lavorativa;
- utilizzare filtri che prevengano determinate operazioni, quali l’accesso a siti inseriti in una sorta di black list o il download di file musicali o multimediali.
Per quanto riguarda la posta elettronica, è opportuno che l’azienda:
- renda disponibili anche indirizzi condivisi tra più lavoratori (info@ente.it; urp@ente.it; ufficioreclami@ente.it), rendendo così chiara la natura non privata della corrispondenza;
- valuti la possibilità di attribuire al lavoratore un altro indirizzo (oltre quello di lavoro), destinato ad un uso personale;
- preveda, in caso di assenza del lavoratore, messaggi di risposta automatica con le coordinate di altri lavoratori cui rivolgersi;
- metta in grado il dipendente di delegare un altro lavoratore (fiduciario) a verificare il contenuto dei messaggi a lui indirizzati e a inoltrare al titolare quelli ritenuti rilevanti per l’ufficio, ciò in caso di assenza prolungata o non prevista del lavoratore interessato e di improrogabili necessità legate all’attività lavorativa.
Qualora queste misure preventive non fossero sufficienti a evitare comportamenti anomali, gli eventuali controlli da parte del datore di lavoro devono essere effettuati con gradualità. In prima battuta si dovranno effettuare verifiche di reparto, di ufficio, di gruppo di lavoro, in modo da individuare l’area da richiamare all’osservanza delle regole. Solo successivamente, ripetendosi l’anomalia, si potrebbe passare a controlli su base individuale.
Il Garante della Privacy ha chiesto infine particolari misure di tutela in quelle realtà lavorative dove debba essere rispettato il segreto professionale garantito ad alcune categorie, come ad esempio i giornalisti.
Con riferimento allo Statuto dei lavoratori va ricordato, però, che la giurisprudenza della Corte di Cassazione già da un pò di tempo ha iniziato a rivedere l’applicazione dell’art. 4.
Difatti, con sentenza n. 4746 del 2002 la Cassazione ha escluso l’applicabilità di detto articolo ai controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore, i c.d. controlli difensivi.
Il ragionamento della Corte, in tal senso, è chiaro: “Ai fini dell’operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori previsto dall’art. 4 l. n. 300 citata, è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dell’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cosiddetti controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell'accesso ad aree riservate, o gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate.
Successivamente, con la pronuncia n. 15892 del 2007, la Corte ha tuttavia ammesso un limite, affermando che i controlli difensivi non possono giustificare l’annullamento di ogni garanzia: “Né l’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore”.
Inoltre, più di recente, la stessa Corte di Cassazione con la sentenza n. 22662 dell’8 novembre 2016, ha affermato che “in tema di controllo del lavoratore, le garanzie procedurali imposte dall’art. 4, secondo comma, legge n. 300/1970, per l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo, richiesti da esigenze organizzative e produttive, ovvero dalla sicurezza del lavoro, dai quali derivi la possibilità di verifica a distanza dell’attività dei lavoratori, trovano applicazione ai controlli, c.d. difensivi, diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando, però, tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso.
Stupro: si può chiedere il risarcimento per danno biologico? I genitori dell’imputato minorenne possono essere costretti a pagare per il reato del figlio?
Ogni reato che provoca anche un danno patrimoniale obbliga il suo autore a pagare il risarcimento. Ad esempio, chi con la propria auto investe un pedone verrà non solo processato per il reato di lesioni stradali colpose, ma dovrà anche risarcire i danni alla salute inferti alla vittima. Ciò vale praticamente per ogni reato che ha causato un pregiudizio, anche di tipo morale. Con questo articolo ci concentreremo su uno specifico argomento: parleremo cioè del risarcimento danni per violenza sessuale.
Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha stabilito che l’abuso sessuale, causando una ferita insanabile nella vittima, costituisce un vero e proprio danno biologico permanente, alla stregua di quello che si patisce a causa di un sinistro stradale oppure di un’aggressione fisica molto grave.
Il provvedimento in commento è molto importante perché permette di comprendere come l’autore del reato debba risarcire tutti i danni, anche quelli che non sono visibili immediatamente. Se l’argomento ti interessa, prosegui nella lettura: vedremo insieme come funziona il risarcimento dei danni per violenza sessuale.
Quando è violenza sessuale?
La violenza sessuale è il reato che commette chi costringe un’altra persona a compiere o subire atti sessuali.
Per “atti sessuali” non si intende soltanto il rapporto sessuale completo (la congiunzione carnale), ma qualsiasi coinvolgimento di parti del corpo definibili come “zone erogene”. Sono erogene quelle parti capaci di stimolare l’istinto sessuale (organi genitali, cosce, labbra, collo, seno, ecc.).
Dunque, sono stupro tutti i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti delle zone erogene, anche se fatti sopra i vestiti, capaci di eccitare chi li compie. Di seguito analizzeremo i casi più frequenti di violenza sessuale.
Per la giurisprudenza, anche un solo bacio, se dato su una zona erogena, può costituire violenza sessuale. Si pensi al bacio sulle labbra oppure a quello sul collo, quando sono estorti alla vittima senza il suo consenso.
Secondo la Cassazione, anche il bacio sulla guancia, se dato in maniera subdola e accompagnato da complimenti non graditi, può integrare il reato di violenza sessuale.
C’è diritto al risarcimento dei danni?
Secondo la legge, ogni reato che ha provocato un danno (patrimoniale o non patrimoniale) obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che devono rispondere per il fatto di lui (come ad esempio i genitori, nel caso di imputato minorenne).
Dunque, è chiaro che da un illecito penale può derivare una doppia responsabilità:
- penale, con conseguente possibilità di condanna alla reclusione;
- civile, da cui consegue l’obbligo di pagare i danni.
È il caso, visto in apertura, dell’incidente stradale da cui sia derivato il ferimento o la morte di una persona, del danneggiamento violento di un bene, della rapina terminata non solo con la sottrazione del bottino ma anche con le lesioni ai danni della vittima.
Anche nell’ipotesi di violenza sessuale spetta quindi il risarcimento a favore della vittima. Come diremo a breve, il colpevole può essere condannato a pagare non solo il danno morale ma perfino quello biologico, relativo alla lesione dell’integrità fisica della persona offesa.
Che tipo di danno va risarcito?
Secondo l’ordinanza della Suprema Corte citata in apertura, la violenza sessuale comporta per la vittima una ferita insanabile che può essere equiparata a tutti gli effetti a un danno biologico permanente.
In altre parole, per i giudici, l’abuso sessuale ai danni di una persona, soprattutto se minorenne, è un fatto talmente grave da causare una lesione all’integrità fisica della vittima, tale essendo appunto il danno biologico.
La vittima di stupro, quindi, ha diritto non solo al risarcimento per i danni morali, consistenti nella sofferenza interiore patita a seguito della violenza, ma anche al danno biologico. E infatti, l’integrità di una persona ricomprende non solo l’aspetto più prettamente fisico, ma anche quello psichico.
Il danno biologico consiste quindi nella lesione che può intaccare tanto l’integrità fisica (la classica ferita lacero-contusa, tanto per intenderci) quanto quella psichica.
Chi subisce una violenza sessuale, dunque, patisce un danno biologico a tutti gli effetti, al quale può poi perfino aggiungersi quello morale, consistente nel turbamento dello stato d’animo della persona offesa.
Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione, alla vittima minorenne di violenza sessuale è stata riconosciuta un’invalidità del 25% conseguente allo stupro subito.
Secondo i supremi giudici, per la donna vittima della violenza sessuale l’abuso resta una piaga nell’anima, a nulla rilevando che in seguito ella sia sposata e abbia avuto un figlio.
Chi paga i danni?
Secondo la Corte di Cassazione, se l’autore della violenza sessuale è un minorenne, allora per i danni rispondono anche i genitori, colpevoli di aver impartito una cattiva educazione al proprio figlio.
Come si chiedono i danni?
La vittima di una violenza sessuale può chiedere il risarcimento dei danni direttamente nel processo penale, costituendosi parte civile con l’assistenza necessaria di un avvocato.
All’esito del processo, se il giudice ritiene provata la responsabilità penale dell’imputato, condanna quest’ultimo non solo alla reclusione ma anche al pagamento dei danni a favore della vittima, nei limiti della prova raggiunta nel giudizio penale.
Per chiedere il risarcimento dei danni per violenza sessuale potrebbe essere necessario rivolgersi al tribunale civile anziché a quello penale. Ciò avviene quando il giudice penale non ha quantificato i danni (ad esempio, perché non aveva elementi idonei per poterlo fare) oppure quando non ci si è potuti costituire parte civile.
È ciò che è accaduto nella pronuncia della Cassazione più volte richiamata. La vittima di stupro doveva intraprendere un separato giudizio civile per vedersi riconosciuti i danni (sia dal colpevole che dai suoi genitori) in quanto, all’epoca dei fatti, anche l’imputato era minorenne e la legge proibisce la costituzione di parte civile nel processo minorile.
Ecco perché si è dunque resa necessaria una causa civile per ottenere il risarcimento dei danni per violenza sessuale.
Chi lo può fare e quali documenti servono. Si può riscattare in anticipo?
Il beneficiario di una polizza vita è la persona che, allo scadere del contratto o al manifestarsi dell’evento indicato, riceve quanto è stato pattuito tra il contraente (colui che attiva la polizza e che paga i premi) e la compagnia. Ma, in termini pratici, che cosa deve fare? Come riscuotere l’assicurazione sulla vita?
È fondamentale partire con questa premessa: non è detto che ad incassare sia la stessa persona che ha firmato il contratto di assicurazione e che ha pagato ad ogni scadenza la quota stabilita. Non bisogna dimenticare, infatti, che una polizza coinvolge quattro soggetti diversi sui quali non bisogna fare confusione, vale a dire:
- il contraente, che, come detto, è la persona che accende la polizza e che paga i relativi premi;
- l’assicurato, cioè il soggetto su cui si determina l’evento che dà diritto a riscuotere la polizza;
- il beneficiario, che è chi riscuote l’assicurazione;
- la compagnia assicurativa.
Lasciando per un momento da parte la compagnia, il cui ruolo appare piuttosto evidente, gli altri tre soggetti possono essere la stessa persona, possono essere due individui diversi o, addirittura, tre. Lo capiamo meglio con questo esempio.
Fabrizio stipula una polizza vita con la compagnia X e si impegna a versare i premi. Poiché il figlio Matteo fa il pilota di aereo, decide che, in caso di morte del figlio, la compagnia paghi il capitale alla vedova di Matteo, Giulia. Pertanto:
- Fabrizio sarà il contraente, perché stipula la polizza e versa i premi;
- Matteo sarà l’assicurato, perché l’evento che determina il pagamento è il suo decesso;
- la vedova di Matteo, Giulia, sarà la beneficiaria perché sarà lei a ricevere il capitale.
Che cos’è la polizza vita?
Si rende necessario, al fine di capire il ruolo del beneficiario e come può riscuotere l’assicurazione sulla vita, spiegare brevemente di che cosa stiamo parlando, cioè che cos’è questo tipo di polizza.
Un’assicurazione vita è un contratto che consente di ottenere un beneficio economico in cambio del pagamento di un premio (cioè della quota che deve versare il contraente ad ogni scadenza prestabilita) al verificarsi di un evento relativo alla vita dell’assicurato.
Esistono tre tipi di polizza vita:
- il caso vita: la compagnia paga al beneficiario il capitale stabilito o una rendita in caso di sopravvivenza dell’assicurato al momento indicato nel contratto;
- il caso morte, o polizza Tmc (Temporanea caso morte): la compagnia paga al beneficiario il capitale stabilito in caso di decesso dell’assicurato;
- la polizza mista: la compagnia versa al beneficiario una rendita o un capitale sia in caso di sopravvivenza dell’assicurato alla scadenza del contratto sia in caso di morte prima che la polizza giunga al termine. In quest’ultimo caso, i beneficiari hanno diritto a riscuotere il capitale o la rendita subito dopo l’evento.
La nomina del beneficiario nell’assicurazione vita
Dei tre tipi di assicurazione vita che abbiamo appena elencato, il più delicato è il caso morte, poiché si tratta dell’evento meno prevedibile: un infarto, un incidente stradale, una malattia con un decorso molto veloce possono causare un decesso inatteso.
In questi casi, occorre che a monte, cioè al momento di stipulare il contratto, sia stato identificato il beneficiario della polizza in modo molto specifico, con tanto di nome, cognome, codice fiscale e quant’altro. In questo modo, il beneficiario non soltanto sarà il solo ad avere il diritto di incassare il capitale o la rendita ma potrà essere anche rintracciato ed avvertito per tempo dell’evento. In caso contrario, se il beneficiario o i beneficiari vengono indicati in maniera troppo generica, partirebbe una procedura di accertamenti sugli aventi diritto destinata a finire nei meandri della burocrazia.
Da sottolineare la particolarità della polizza Temporanea caso morte: riguarda la possibilità che il decesso dell’assicurato possa avvenire entro un determinato periodo. L’esempio più classico è quello di chi accende un mutuo per l’acquisto di una casa e, per non lasciare la famiglia in difficoltà con il pagamento delle rate nel caso in cui morisse nel frattempo, decide di sottoscrivere un’assicurazione vita Temporanea caso morte che scade insieme all’ultima rata del mutuo.
Come riscuotere l’assicurazione vita?
L’assicurazione vita può essere riscossa sia alla scadenza della polizza sia, in certi casi e a determinate condizioni, in forma anticipata.
In ogni caso, il beneficiario dovrà rivolgersi alla compagnia con cui è stato sottoscritto il contratto e presentare la seguente documentazione:
- copia di un documento d’identità;
- se l’assicurato è ancora in vita, certificato anagrafico che attesta tale circostanza;
- domanda di liquidazione.
Occorrerà indicare alla compagnia anche la modalità di pagamento (bonifico bancario, assegno circolare, ecc.).
In caso di decesso del titolare della polizza, gli eredi dovranno consegnare alla compagnia la documentazione che riguarda le circostanze della morte, attraverso una dichiarazione sostitutiva di atto notorio rilasciata dal Comune di residenza ed il certificato di morte firmato dal medico. La polizza andrà a beneficio degli eredi o di chi è espressamente indicato nel contratto.
Per quanto riguarda la possibilità di riscuotere anticipatamente l’assicurazione vita, la compagnia è tenuta – se il beneficiario lo richiede ed il contratto lo consente – a liquidare al beneficiario l’importo assicurato anche prima della scadenza. Bisogna, però, tenere conto delle clausole stipulate al momento della firma. Ad esempio, la polizza vita non può essere interrotta nei primi tre anni. Occorre, quindi, attendere almeno 36 mesi (e pagare i relativi premi) prima di riscuotere anticipatamente. Nel caso del «premio unico», invece, la somma potrà essere richiesta anche dopo un anno dalla stipula.
La richiesta di liquidazione può essere presentata sia compilando un apposito modulo firmato dalla compagnia sia attraverso una domanda scritta dall’interessato in cui si riportano le proprie generalità e si specifica il motivo della richiesta. Vanno indicati anche gli estremi della polizza (data in cui è stata stipulata, numero di contratto, ecc.).
È, infine, possibile riscuotere solo una parte del capitale accumulato negli anni, a meno che questa ipotesi sia stata esclusa in partenza nel contratto.
Mediamente, il tempo necessario per riscuotere l’assicurazione sulla vita è di 30 giorni dalla data in cui è stata presentata la richiesta alla compagnia. Tuttavia, tale dettaglio deve essere indicato nella nota informativa che accompagna il contratto.
Se la scadenza per il pagamento riportata nella nota informativa non viene rispettata, cioè se il versamento avviene in data successiva, il beneficiario ha diritto agli interessi maturati nei giorni o nelle settimane trascorsi fino all’effettivo incasso della polizza.
Le indagini svolte possono essere utilizzate come prove in tribunale?
Chi vuole far valere un proprio diritto in giudizio deve fornire le prove che sono a fondamento dello stesso. Ad esempio, chi agisce per ottenere la restituzione di una somma di denaro deve provare che il credito esiste, magari esibendo in giudizio un contratto o una cambiale; chi vuole ottenere l’addebito della separazione dovrà dimostrare che il coniuge è stato infedele oppure che è venuto meno agli altri obblighi matrimoniali. Proprio perché, per legge, bisogna sempre provare le proprie ragioni, molti si affidano a un’agenzia investigativa. Cosa fa?
Come vedremo di qui a breve, l’attività degli investigatori può essere davvero molto utile in giudizio, a volte perfino determinate per ottenere la vittoria. L’errore che non si deve commettere, però, è di pensare che l’investigatore privato abbia poteri speciali riconosciutigli dalla legge, come ad esempio quello di perquisire persone o di ispezionare luoghi. Queste funzioni sono attribuite solamente alla polizia giudiziaria e, pertanto, non ci si può attendere che l’investigatore possa fare cose tipo intercettare chiamate, in quanto altrimenti commetterebbe reato. Ma allora cosa fa un’agenzia investigativa? Scopriamolo insieme.
Agenzia investigativa: cos’è?
L’agenzia investigativa non è altro che un’organizzazione che offre al pubblico servizi d’investigazione.
In genere, l’agenzia investigativa conta diversi investigatori privati, ognuno dei quali è munito di licenza rilasciata dal prefetto che consente di svolgere attività di vigilanza e di investigazione o ricerca per conto di privati.
Agenzia investigativa: quali sono i suoi compiti?
L’agenzia investigativa si occupa di compiere indagini per conto di privati. Questo tipo di investigazioni riguardano quasi sempre l’ambito civile, ma nulla esclude che possano essere compiute anche nel settore penale.
Alle agenzie investigative ricorrono non solo i privati cittadini ma anche i professionisti, come ad esempio gli avvocati quando devono allegare prove (documenti, foto, ecc.) ai propri scritti difensivi.
L’agenzia investigativa, dunque, funge da supporto a quanti vogliono intraprendere un’azione giudiziaria; ma non solo: l’attività degli investigatori può essere molto utile anche al di fuori delle aule di giustizia, ad esempio in sede di trattative per l’acquisto di un immobile. Si pensi al venditore che, non fidandosi dell’acquirente, faccia fare delle indagini per capire se, in effetti, il compratore ha la disponibilità economica che promette.
Cosa fa un’agenzia investigativa?
Vediamo ora cosa fa in concreto un’agenzia investigativa. Per la precisione, un investigatore privato alle dipendenze di un’agenzia può:
- effettuare pedinamenti;
- scattare foto e girare riprese (filmati), purché ciò avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico;
- registrare conversazioni che avvengano in sua presenza;
- effettuare sopralluoghi, purché vi sia il consenso del titolare del posto;
- avvalersi di dispositivi di localizzazione (cosiddetti Gps tracker), ad esempio al fine di monitorare gli spostamenti di una persona o di un’autovettura;
- raccogliere informazioni estratte da documenti di libero accesso (ad esempio, i certificati che possono essere richiesti all’anagrafe comunale);
- collaborare con esperti di scienza forense per il recupero del materiale trovato nei dispositivi digitali (tablet, cellulari, ecc.).
Agenzia investigativa: cosa non può fare?
Un’agenzia investigativa non può mai infrangere la legge; pertanto, non può:
- intercettare telefonate che avvengono tra altre persone oppure conversazioni tra persone non presenti;
- introdursi in luoghi privati senza permesso;
- effettuare riprese audio e/o video all’interno di privata dimora senza consenso;
- accedere a conto corrente personale o ad altri dati coperti dalla privacy.
Le condotte sopra descritte sono punite dalla legge e costituiscono reato. Ad esempio, solo la polizia giudiziaria, su autorizzazione del giudice, può procedere ad intercettazione. Se un investigatore privato effettuasse un’intercettazione (ambientale o telefonica che sia), commetterebbe il reato di interferenze illecite nella vita privata.
Agenzia investigativa: le indagini valgono come prove?
Le indagini svolte dall’agenzia investigativa possono essere validamente utilizzate come mezzi di prova all’interno di un processo, civile o penale che sia.
L’importante, come sopra ricordato, è che l’acquisizione sia avvenuta nel rispetto della legge, non violando i divieti che sono stati elencati nel paragrafo precedente. In questa circostanza, tutte le prove raccolte sarebbero inutilizzabili.
Investigatore privato: può testimoniare?
Quando le prove raccolte dall’agenzia investigativa non sono sufficienti oppure sono contestate dalla controparte, è possibile chiamare a deporre quale testimone l’investigatore che le ha raccolte in prima persona.
Ad esempio, in un processo di separazione, se c’è una foto ritraente uno dei coniugi tra le braccia dell’amante, ma l’immagine è contestata dalla controparte in quanto non viene specificato né il luogo né la data, l’investigatore che ha immortalato gli amanti potrà testimoniare e dire di aver visto la coppia con i propri occhi prima di scattare la foto.
Quando si presenta una denuncia-querela non occorrono formule rigide da rispettare, l'importante è che emerga la volontà punitiva del denunciante che si può desumere dagli atti in base al "favor querelae"
La Cassazione accoglie il ricorso del Procuratore contro la sentenza del Giudice di Pace che ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti dell'imputato per assenza di querela.
In realtà, come rileva il ricorrente, la querela è stata presentata, anche se in parte dattiloscritta e in parte a mano e anche se non contiene una frase chiara con la quale il denunciante dichiari di voler perseguire penalmente il padrone del cane che ha morso suo figlio di otto anni su un gluteo. Questo perché la volontà di querelare il soggetto responsabile emerge da altre frasi e termini utilizzati.
Questa la motivazione con cui la sentenza della Cassazione n. 16281/2022 ha accolto il ricorso del Procuratore.
Senza querela non si procede
La vicenda ha inizio quando il Giudice di Pace dichiara di non doversi procedere nei confronti dell'imputato, accusato del reato di lesioni, per difetto di querela. Il soggetto è stato accusato in particolare di aver lasciato libero il proprio cane sulla spiaggia e che questo abbia provocato lesioni a un minore, guaribili in 5 giorni, a causa di un morso su un gluteo.
Per il P.M la querela è stata presentata
Il Pubblico Ministero nel proporre appello evidenzia un'erronea applicazione della legge poiché il padre del minore ha presentato querela presso il commissariato, da cui emerge la volontà punitiva nei confronti dell'imputato.
L'appello del P.M viene riqualificato come ricorso in Cassazione poiché, in base alla decisione del Tribunale, questo soggetto può proporre appello solo nei confronti delle sentenze che applicano una pena diversa da quella pecuniaria.
Il Procuratore con memoria chiede l'annullamento della sentenza di appello del Tribunale sottolineando che la denuncia del padre del minore è stata ratificata, condotta che denota una chiara volontà punitiva.
Atti da interpretare in base al "favore querelae"
Per la Cassazione il ricorso del P.M è fondato. Il Giudice di Pace ha concluso per la mancata presentazione della querela perché il padre del minore, nella denuncia presentata, in parte dattiloscritta e in parte con frasi scritte a mano e in stampatello, ha esposto i fatti, ovvero del morso che il cane dell'imputato ha dato al figlio di 8 anni e all'assenza di qualsiasi scusa da parte del padrone dell'animale.
Alla fine del foglio è presente una scritta in cui il padre del minore dichiara di riservarsi sulla nomina di un legale.
Per la giurisprudenza di legittimità la denuncia non deve contenere formule sacramentali per la sua validità. E' sufficiente che risulti la volontà di perseguire il soggetto responsabile per quanto commesso.
Il Giudice di Pace ha omesso di considerare che la denuncia in atti contiene un chiaro riferimento alla volontà punitiva quando ad un certo punto lo stesso richiede di essere "informato sugli sviluppi delle indagini" o quando, rivolgendosi alle autorità, chiede di "prendere provvedimenti al più presto."
In conclusione, poiché la querela non richiede formule sacramentali, la volontà di punizione da parte della persona offesa può essere riconosciuta dal giudice anche in atti in cui tale volontà non è espressamente esplicitata. Nei casi in cui emerga tale incertezza, comunque, gli atti devono essere interpretati alla luce del "favor querelae".
Come si quantifica un risarcimento di un oggetto rotto: sulla base del prezzo necessario a riacquistarlo o per farlo riparare?
Chi rompe paga. E su questo non ci piove. Ma “quanto” deve pagare? Qui le cose si fanno più difficili. Perché se ci sono danni che possono essere facilmente determinati, come ad esempio il costo della riparazione di un oggetto danneggiato, ce ne sono altri difficilmente quantificabili, come il dolore fisico o un’invalidità.
Senza voler entrare, in questa sede, in una dissertazione sulle varie categorie del danno (che, come noto, può essere «patrimoniale», comprendendo il «danno emergente e il lucro cessante», oppure «non patrimoniale», comprendendo invece il danno morale, il danno biologico e quello esistenziale), concentriamoci piuttosto se, per calcolare il risarcimento del bene danneggiato, si tiene conto del valore attuale o del valore a nuovo.
Cosa significa? Ipotizziamo il caso di una persona che, nel fare retromarcia, vada a sbattere contro un cancello elettrico privato, distruggendolo. Ripararlo risulta impossibile o comunque antieconomico. L’unica via percorribile è di comprarne uno nuovo. Qui il dubbio: il responsabile dovrà pagare il prezzo di acquisto per l’oggetto nuovo, magari anche di ultima generazione, oppure dovrà limitarsi a risarcire il valore (sicuramente ridotto per via dell’uso) che il bene aveva al momento del danneggiamento?
È chiaro che, in questa seconda ipotesi, potrebbe celarsi un’ingiustizia: ci sono oggetti assai vetusti che, seppur funzionanti e adeguati a svolgere la funzione a cui sono preposti, valgono molto poco.
Si pensi a una vecchia auto che riesca a trasportare una famiglia, senza grandi pretese di performance; qualora dovesse andare distrutta in un incidente, il risarcimento pari al valore della stessa non sarebbe sufficiente a garantire al titolare la possibilità di comprarne una nuova. Sicché questi, nonostante il danno, resterebbe privo di un veicolo se non ha la possibilità di attingere a propri fondi.
Insomma, il risarcimento del bene danneggiato si fa sulla base del valore attuale o del valore a nuovo? La questione trova esplicita regolamentazione nella legge. Ecco alcune risposte pratiche.
Come si calcola il risarcimento di un oggetto?
L’articolo 1908 del Codice civile stabilisce testualmente che «nell’accertare il danno non si può attribuire alle cose perite o danneggiate un valore superiore a quello che avevano al tempo del sinistro».
Ne consegue che – salvo diverso accordo tra le parti – il danneggiante (o la sua assicurazione) non deve rimborsare il valore del bene alla data dell’acquisto (che potrebbe risalire a molto tempo prima), ma al valore che tiene conto della vetustà del prodotto. Alla somma così determinata dev’essere poi applicata la rivalutazione monetaria dalla data del sinistro fino alla data del pagamento da parte del danneggiante.
Quindi, ai fini del calcolo del risarcimento, non conta né il prezzo da pagare per un oggetto nuovo, né quello che si era pagato al momento dell’acquisto dell’oggetto danneggiato, ma il valore di quest’ultimo al momento del danno. Quindi, tanto più si tratta di un oggetto vecchio e usurato, tanto minore sarà il risarcimento.
Danno da incidente stradale: quale valore viene risarcito dall’assicurazione?
Tale principio trova frequente applicazione pratica in tema di incidenti stradali. Come noto, non sempre le auto incidentate possono essere portate a nuovo. A volte, vanno rottamate. Anche qui dunque si pone la questione se rimborsare il prezzo necessario all’acquisto di un veicolo nuovo o il valore del bene danneggiato prima che divenisse un relitto. Ebbene, secondo la giurisprudenza, nell’accertare il danno non si può attribuire alle cose perite o danneggiate un valore superiore a quello che avevano al tempo del sinistro. Non si può fare riferimento neanche al valore dell’auto assicurata per come dichiarato nella polizza o in altri documenti con l’assicurazione.
Dunque, non spetta alcun ulteriore risarcimento del danno per il maggior prezzo sborsato dal danneggiato per l’acquisto di una vettura nuova in seguito a incidente stradale, in quanto tale esborso è adeguatamente compensato dalle somme attribuite per interessi e rivalutazione e dal maggior valore d’uso del nuovo bene acquistato.
IDFOX Srl International Detectives Fox ® Via Luigi Razza 4 – 20124 – Milano
Aut.Gov. n.9277/12B15E Area 1 Pref. Milano
P.IVA 09741640966